J. Ratzinger. Meditazione sul Magnificat

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"Tutte le generazioni mi chiameranno beata"



« Tu sei la piena di grazia »

Elementi per una devozione mariana biblica

«D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata ». Questa parola della Madre di Gesù, che Luca (1,48) ci ha tramandato, è insieme profezia e compito per la Chiesa di tutti i tempi. Così questa frase del Magnificat, ripresa dall'ispirata preghiera di lode di Maria al Dio vivente, è uno dei fondamenti essenziali della devozione cristiana a Maria. La Chiesa non ha inventato nulla di nuovo, quando ha cominciato a magnificare Maria; non è precipitata dalle altezze dell'adorazione dell'unico Dio giù nella lode di un essere umano. Essa fa ciò che deve fare e di cui è stata incaricata fin dall'inizio. Quando Luca scrisse questo testo, si era già nella seconda generazione cristiana, e alla « generazione » dei giudei si era aggiunta quella dei pagani, che erano divenuti Chiesa di Gesù Cristo. La parola « tutte le generazioni » cominciava a riempirsi di realtà storica. L'evangelista non avrebbe certo tramandato la profezia di Maria se essa gli fosse sembrata indifferente o superata. Nel suo Vangelo egli voleva fissare « con cura » ciò che « i testimoni oculari e i servitori della parola fin dal-l'inizio » (1,2-3) avevano tramandato, per dare così sicure indicazioni alla fede della cristianità che stava facendo il suo ingresso nella storia del mondo.
La profezia di Maria apparteneva a questi elementi, che egli aveva « con cura » rintracciato e riteneva sufficientemente importanti da tramandare come parte del Vangelo. Ciò presuppone che questa parola non era rimasta senza una corrispondenza nella vita della comunità: i primi due capitoli del Vangelo di Luca lasciano intendere un ambiente di tradizione, nel quale la memoria di Maria era custodita e la Madre del Signore era amata e lodata. Essi presuppongono che il grido, ancora un poco ingenuo, di quella donna sconosciuta: « Beato il seno che ti ha portato » (Lc 11,27) non si era spento, ma aveva invece trovato una più pura e valida configurazione nella più profonda comprensione che ne aveva dato Gesù. Presuppongono pure che il saluto di Elisabetta: « Tu sei benedetta fra tutte le donne » (1,42), che Luca caratterizza come una parola pronunciata nello Spirito Santo (1,41), non era rimasto un episodio isolato. La perdurante esaltazione di Maria, almeno in un filone della primitiva tradizione, è il presupposto dei racconti dell'infanzia lucani. L'inserzione di questa parola nel Vangelo eleva la venerazione di Maria da semplice fatto a compito per la Chiesa di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La Chiesa trascura qualcosa di quella che è la sua missione, se non loda Maria. Essa si allontana dalla parola biblica, se in lei viene meno la venerazione di Maria. Allora essa in realtà non onora più neppure Dio nel modo che gli si addice. Noi conosciamo infatti Dio innanzitutto attraverso la sua creazione: « Dalla creazione del mondo in poi, le per-fezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eter-na potenza e divinità... » (Rm 1,20). Conosciamo però Dio anche attraverso un'altra e più trasparente via e cioè attraverso la storia, che egli ha posto in atto con gli uomini. Come la realtà di un uomo si rivela nella storia della sua vita e nelle relazioni che intesse, così Dio si rende visibile in una storia, in uomini, attraverso i quali la sua natura si rende manifesta, a tal punto che egli in riferimento a loro può essere « denominato», in loro può essere riconosciuto: il Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe. Attraverso la relazione con persone umane, attraverso i volti di persone umane, egli si è manifestato ed ha mostrato il suo volto. Non possiamo, trascurando questi volti, voler avere solo Dio, per così dire nella sua forma pura: questo sarebbe un Dio pensato da noi al posto di quello reale, sarebbe un altezzoso purismo, che ritiene i propri pensieri più importanti delle azioni di Dio. Il versetto del Magnificat ci mostra che Maria è uno di quegli esseri umani che appartengono in modo del tutto speciale al nome di Dio, a tal punto che noi non possiamo lodarlo come si conviene se lo lasciamo da parte. Allora trascuriamo qualcosa di lui, che non può essere trascurato. Che cosa propriamente? La sua maternità, potremmo dire in una prima approssimazione, che si manifesta nella Madre del Figlio in modo più puro e diretto che non in qualsiasi altro luogo. Ma naturalmente questa è un'indicazione ancora troppo generica. Perché possiamo lodare Maria come si conviene e così onorare Dio nel modo giusto, dobbiamo metterci in ascolto di tutto ciò che Scrittura e Tradizione ci dicono sulla Madre del Signore e meditarlo nel nostro cuore. La ricchezza della dottrina mariana è, nel frattempo, gra-zie alla lode di « tutte le generazioni », divenuta quasi illimitata. In questa breve meditazione vorrei solo offrire un qualche aiuto per una rinnovata riflessione su alcune delle parole più significative che san Luca, nell'inesauribile testo della sua narrazione dell'infanzia, ci ha messo nelle mani.
... Infine vorrei fare riferimento ancora al Magnificat, che mi appare come una sintesi di tutti questi aspetti. Qui per i Padri Maria si manifesta come la profetessa ripiena di Spirito, in particolare nella predizione della lode da parte di tutte le generazioni. Ma questa preghiera profetica è tutta intessuta con fili dell'Antico Testamento. In che misura vi sono elementi precristiani o in che misura l'evangelista ha contribuito alla sua formulazione sono problemi del tutto secondari. Luca e la tradizione che sta dietro di lui odono in questa preghiera la voce di Maria, della Madre del Signore. Essi sanno: così ella ha parlato io Maria ha vissuto così profondamente nella parola dell'antica alleanza, che questa è divenuta in modo del tutto spontaneo la sua propria parola. La Bibbia era così pregata e vissuta da lei, era così «ruminata » nel suo cuore, che ella vedeva nella parola divina la sua vita e la vita del mondo; era così propria, che ella nella sua ora con questa stessa parola poteva rispondere. La parola di Dio era divenuta la sua propria parola, e la sua propria parola si era unita con la parola di Dio: i confini erano caduti, perché la sua esistenza nella familiarità con la parola era ormai vita con lo Spirito Santo. «L'anima mia magnifica il Signore»: non perché noi possiamo aggiungere qualcosa a Dio, commenta al riguardo sant'Ambrogio, ma perché lo lasciamo divenire grande in noi. Magnificare il Signore significa: voler fare grande non se stessi, il proprio nome, il proprio io, allargarsi ed esigere spazio, ma dare spazio a lui, perché egli sia maggiormente presente nel mondo. Significa diventare in modo più vero ciò che noi siamo: non una monade chiusa, che rappresenta solo se stessa, ma immagine di Dio. Significa liberarsi dalla polvere e dalla ruggine, che rende opaca e ricopre l'immagine, e divenire ve-ramente uomini nella pura relazione a lui.

Maria nel mistero della croce e della risurrezione

Sono così giunto al secondo aspetto dell'immagine di Maria, che ancora volevo toccare. Magnificare Dio, cioè rendersi liberi per lui; questo è il vero e proprio esodo, l'uscire dell'uomo da se stesso, che Massimo il Confessore nella spiegazione della passione di Cristo ha descritto in modo incomparabile: il « transito dal contrasto alla comunione delle due volontà », che « passa attraverso la croce dell'obbedienza ». In Luca troviamo espressa la dimensione di croce, che la grazia, la profezia e la mi-stica hanno per Maria nell'incontro con il vecchio Simeone. Il vecchio dice a Maria in parola profetica: « Ecco, egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione e a te una spada trasfiggerà l'anima... » (2,34ss). Mi viene in mente la profezia di Natan a Davide dopo il suo peccato: ha ucciso Uria con la spada degli ammoniti: « Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa » (2Sam 12,9ss). La spada, che pende sopra la casa di Davide, colpisce ora il suo cuore. Nel vero Davide, Cristo, e nella sua madre, la vergine pura, la maledizione viene presa su di sé e quindi superata. La spada trafiggerà il cuore di Maria: è allusione alla passione del Figlio, che diverrà la sua propria passione. Questa passione inizia già con la successiva visita al tempio: ella deve accettare la preminenza del suo vero padre e della sua casa, del tempio; deve imparare a lasciare libero colui che ha generato. Deve portare a compimento quel «sì» alla volontà di Dio, che l'ha fatta diventare madre, mettendosi in disparte e lasciandolo alla sua missione. Nei dinieghi della vita pubblica e nel mettersi in disparte si verifica un passo importante, che si compirà sotto la croce con le parole: « Ecco tuo figlio »; non più Gesù, ma il discepolo è ora suo figlio. L'accoglienza e la disponibilità sono il primo passo che le viene richiesto; il lasciare e l'abbandonare il secondo. Solo così si compie la sua maternità: le parole « beato il ventre che ti ha portato » divengono pienamente vere solo quando si tramutano nell'altra beatitudine: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano » (Lc 11,27s). Così Maria è preparata al mistero della croce, che non termina semplicemente sul Golgota. Suo Figlio rimane segno di contraddizione, ed ella rimane così fino alla fine coinvolta nella sofferenza di questa contraddizione, nella sofferenza della maternità messianica. Alla pietà cristiana è diventata particolarmente cara proprio l'immagine della madre sofferente, divenuta totalmente compassione, con in braccio il Figlio morto. Nella madre compassionevole i sofferenti di tutti i tempi hanno tro-vato il riflesso più puro di quella compassione divina, che è l'unica vera consolazione. Infatti ogni dolore, ogni sofferenza è nella sua ultima realtà isolamento, perdita di amore. felicità, distrutta di chi non viene accolto. Soltanto l'essere «con» può sanare il dolore. In Bernardo di Chiaravalle si trova la mirabile espressione: Dio non può patire, ma può compatire. Bernardo pone così in qualche modo termine alla discussione dei Padri sulla novità del concetto cristiano di Dio. Secondo il pensiero antico, della natura di Dio faceva parte l'imperturbabilità propria della ragione pura. Per i Padri era difficile rifiutare questa concezione e pensare a una « passione » in Dio, ma a partire dalla Bibbia essi vedevano molto bene che «la rivelazione biblica » tutto « sconvolge..., quanto il mondo aveva pensato su Dio». Essi compresero che in Dio vi è un'intima passione, che è perfino la sua peculiare essenza, l'amore. E poiché egli è amante, proprio per questo il patire sotto la forma del compatire non gli è estraneo. « Nel suo amore per gli uomini colui che non può patire ha patito la compassione della misericordia » scrive Origene. Si potrebbe dire: la croce di Cristo è il compatire di Dio con il mondo. Nell'Antico Testamento ebraico il compatire di Dio con l'uomo è espresso non attraverso un termine preso dall'ambito psicologico, ma, in armonia con la modalità concreta del pensiero semitico, viene designato con un vocabolo, che nel suo significato fondamentale indica una parte fisica del corpo, e cioè rahamim, che al singolare significa il grembo, il seno materno. In questo modo, come « cuore » esprime il sentimento, lombi e reni il desiderio e il dolore, così il grembo materno esprime lo stare vicino all'altro, indica nel modo più profondo la capacità dell'essere umano di esistere per l'altro, di accoglierlo, di portarlo in sé e, nel portarlo su di sé, di dargli la vita. Con un termine preso dal linguaggio del corpo, l'Antico Testamento ci dice come Dio ci custodisca dentro di sé, ci porti in sé con amore compassionevole. Le lingue, con le quali il Vangelo entrò in contatto nel suo passaggio al mondo pagano, non conoscevano tali forme di espressione. Ma l'immagine della Pietà, la « mater dolorosa » che abbraccia il Figlio morto, divenne la traduzione vivente di questa parola: in lei si rende manifesta la passione materna di Dio. In lei è divenuta visibile, toccabile. Essa è la « compassio » di Dio, resa presente in un essere umano, che si è lasciato totalmente attirare nel mistero di Dio. Ma, poiché la vita umana comporta sempre la sofferenza, per questo l'immagine della « mater dolorosa », l'immagine della misericordia (rahamim) di Dio è divenuta così importante per la cristianità. Solo in lei l'immagine della croce giunge a compimento, perché essa è la croce accolta, la croce che si comunica nell'amore, che ci permette ora, nella sua compassione, di sperimentare la compassione di Dio. Così la sofferenza della madre è sofferenza pasquale, che già manifesta la trasformazione della morte nel redentivo « essere con » dell'amore. Solo apparentemente ci siamo allontanati dal «gioisci », con il quale ha inizio la storia di Maria. Infatti la gioia, che le viene annunciata, non è la gioia banale, che si fonda sulla dimenticanza degli abissi della nostra esistenza ed è pertanto condannata a precipitare nel vuoto. E la vera gioia, che ci dà l'audacia di osare l'esodo dell'amore fin nell'ardente santità di Dio. E quella vera gioia, che nella sofferenza non viene distrutta, ma soltanto portata a maturità. Soltanto la gioia che resiste alla sofferenza, ed è più forte della sofferenza, è la vera gioia. «Tutte le generazioni mi chiameranno beata». Noi proclamiamo Maria beata con parole che sono una sintesi del saluto dell'angelo e del saluto di Elisabetta, con parole, quindi, che non sono state inventate da uomini. Infatti circa il saluto di Elisabetta l'evangelista dice che ella lo ha pronunciato in quanto ripiena di Spirito Santo. « Tu sei benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno » ha detto Elisabetta; e noi imitandola ripetiamo: « Tu sei benedetta ». Qui risuona ancora una volta all'inizio della nuova alleanza la promessa fatta ad Abramo, al quale Dio ha detto: « Tu sarai una benedizione... in te tutte le generazioni della terra saranno benedette » (Gn 12,2-3). Maria, che ha accolto la fede di Abramo e l'ha condotta al suo fine, è ora la benedetta. E divenuta la madre dei credenti, attraverso di lei tutte le generazioni della terra sono benedette. Quando la lodiamo, ci collochiamo all'interno di questa benedizione. In essa entriamo, quando, insieme con lei diventiamo credenti e magnifichiamo Dio, perché egli abiti in mezzo a noi come il Dio con noi: Gesù Cristo, il vero e unico redentore del mondo.


Da J. Ratzinger, Maria Chiesa nascente, Milano, 1998

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