Emiliano Jimenez. I falsi profeti. Commento al Discorso della montagna

I due alberi
Gesù si serve dell'immagine del lupo vestito con pelle di pecora per descrivere i falsi profeti. Per riconoscere la loro natura di lupo basta togliere loro la maschera della parola in modo che appaia la realtà della loro persona. Sebbene indossino la veste di miti agnelli, in realtà i falsi profeti sono lupi rapaci infiltrati nel gregge del Signore in cerca di bottino (cfr. Gen 49,27; Ez 22,27). La pelle di pecora serve loro per nascondere sotto la maschera la loro natura malvagia e per introdursi nella comunità, tante volte chiamata nella Scrittura «gregge del Signore» (Ez 34,10ss; Zc 11,17; 13,7; Sal 74,1). I cani e i porci cui non si debbono gettare le perle (Mt 7,6) sono reali intorno alla comunità cristiana. Paolo li chiama falsi apostoli (2Cor 11,13) e Pietro falsi maestri (2Pt 2,1). I lupi divorano l'Agnello. Contro questi lupi rapaci Paolo avverte i presbiteri della chiesa di Efeso riuniti a Mileto: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge» (A t 20,28-29). Questi eretici o falsi profeti si presentano nella comunità cristiana in nome dello stesso Cristo e realizzano prodigi e segni, creando confusione tra i discepoli. «Con un parlare solenne e lusinghiero ingannano il cuore dei semplici» (Rm 16,19). Il dono del discernimento diventa imprescindibile, per distinguere i veri inviati di Cristo da quelli falsi. Il criterio per smascherare i falsi profeti sono i fatti della loro vita, i frutti del loro agire. Perciò Gesù, grande catechista, si serve di una nuova immagine: i due alberi, quello buono e quello cattivo. L'albero buono non può dare frutti cattivi, nè l'albero cattivo dare frutti buoni. E per rendere più incisiva la sua catechesi Gesù interpella gli ascoltatori con la domanda: «Si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi?» (Mt 7,16).
Sono i fatti della storia a mostrare il cristiano. Gesù, che conosce il cuore dell'uomo, ci previene nel momento del giudizio. Le apparenze ingannano. Le parole, le buone intenzioni, non sempre sono un segno rivelatore dello spirito cristiano. Un albero si conosce dai suoi frutti e non dalle sue foglie. Conosciamo il fico esuberante di foglie ma senza fichi che Gesù maledisse e che si seccò completamente (Mt 21,19ss). La croce quotidiana, che Gesù invita ad assumere per seguirlo, è il tocco distintivo del discepolo fedele. Solo chi è stato innestato nella vera vite, che è Cristo, dà frutti di vita (Gv 15,1ss). Il cuore dell'uomo è ingannevole, lo si conosce solo attraverso le sue opere. Perciò Gesù continua a dire a quanti lo attorniano sul monte: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, nè un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere» (Mt 7,15-20). I due frutti tipici e molto apprezzati in Palestina, uva e fichi, non si raccolgono dalle spine o dai rovi, caratterizzati dalla loro sterilità, oltre ad essere dannosi per ogni terra di coltura. Come non ricordare il canto amaro della vigna di Israele? «Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica. Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perchè, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata nè vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5,1-7). Geremia, invece, canta l'albero buono, cioè il fedele che affonda le sue radici fino a riporre la sua fiducia nel Signore: «Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia. Egli è come un albero piantato lungo l'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell'anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti» (Ger 17,7-8). Ezechiele annuncia per i tempi messianici l'abbondanza di alberi buoni, che danno frutti squisiti e salutari: «Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perchè le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le loro foglie come medicina». O come dice il libro dei Proverbi: «Il frutto del giusto è un albero di vita» (Pr 11,30). Viene in mente l'apologo di lotam nel quale si presenta l'antitesi tra il rovo e l'ulivo, il fico e la vite (Gdc 9,7-15; cfr. Gc 3,11ss). Paolo elenca ai Galati i frutti buoni, frutti dello Spirito, e i frutti cattivi, frutti della carne: «Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sè; contro queste cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,19-25). Non è mai facile conoscere a fondo una persona. Geremia ci dice che «più fallace di ogni altra cosa è il cuore e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» (Ger 17,9). Egli stesso risponde, mettendo sulla bocca di Dio: «Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per rendere a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto della sue azioni» (Ger 17,10). «Il frutto delle sue azioni», che Matteo indica come criterio di discernimento si riferisce alla condotta più che alla dottrina.
Così appare nella Scrittura ripetutamente (cfr. Is 3,10; Pr 1,31). O, per citare un testo, il profeta Osea raccomanda e avverte: «Seminate per voi secondo giustizia e mieterete secondo bontà; dissodatevi un campo nuovo, perchè è tempo di cercare il Signore, finchè egli venga e diffonda su di voi la giustizia. Avete arato empietà e mietuto ingiustizia, avete mangiato il frutto della menzogna» (Os 10,12-13). In polemica con i farisei Gesù tornerà a servirsi dell'immagine dei due alberi, ai quali paragona il cuore umano, dal quale nascono, come frutto, le parole buone o cattive: «Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo; dal frutto infatti si conosce l'albero. Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poichè la bocca parla dalla pienezza del cuore. L'uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone; mentre l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poichè in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12,33-37). Luca riprende questa parola nel contesto del sermone della montagna (pianura per Luca, cfr. Lc 6,17): «Non c'è albero buono che faccia frutti cattivi, nè albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, nè si vendemmia uva da un rovo. L'uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perchè la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6,43-45). Su questa linea si esprime Gesù Ben Sira: «Il frutto dimostra come è coltivato l'albero, così la parola rivela il sentimento dell'uomo. Non lodare un uomo prima che abbia parlato, poichè questa è la prova degli uomini» (Sir 27,6-7). Con il suo linguaggio duro, Giacomo scrive: «Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi?» (Gc 3,12). Prendendo un detto di Giovanni Battista, Gesù aggiunge. «Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 7,19). Giovanni Battista con questa parola chiamava i suoi ascoltatori a conversione, ad accogliere Gesù Cristo, la cui via egli stava preparando. I «frutti di conversione» sono quelli che distinguono il discepolo vero da quello falso. Con tutta la crudezza del suo linguaggio, il Battista dice ai farisei e ai sadducei che accorrono a lui, chiedendo il battesimo: «Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3,8-10; Gv 15,1ss). L'albero buono per eccellenza è l'albero della croce, dal quale pende il frutto maturo dell'amore di Dio. Innestati in lui anche noi facciamo lo stesso frutto buono e abbondante: «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perchè porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perchè senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (Gv 15,1-6). Non è più fedele il discepolo che ripete mille volte «Signore, Signore». Ci sono persone che non smettono di parlare di Dio o di rivolgere a Dio continue invocazioni, ma la loro vita va per strade opposte a quelle di Dio. Spesso Dio si è lamentato del suo popolo dicendo: «Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mt 15,8-9). Perciò Gesù ci avverte: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,21-23). Luca riferisce questa parola non a quanti hanno profetizzato in nome di Gesù, ma a quanti hanno mangiato e bevuto con lui e hanno ascoltato tante volte la sua parola: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perchè molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!» (Lc 13,24-27).Il dono della profezia è un carisma che Dio concede per l'edificazione della comunità (1Cor 14,3). Gesù stesso invia i suoi discepoli col potere di «guarire gli infermi, risuscitare i morti, sanare i lebbrosi, cacciare i demoni» (Mt 10,8). Nella comunità di Corinto Paolo trova fedeli col dono della guarigione e col potere di fare miracoli (1Cor 12,9-10). Ma tutti questi carismi non sono nulla se manca «il carisma più grande», che è la carità: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla» (1 Cor 13,1-2). Senza l'amore di Dio, il Signore dice a coloro che posseggono tutti gli altri carismi le stesse parole che lo sposo rivolge alle vergini stolte, quando bussano alla porta chiusa: «Non vi conosco» (Mt 25,12). Fare prodigi (Mt 24,24), partecipare all'evangelizzazione con il Signore non apre le porte del Regno, solo la vera conversione del cuore è la porta d'accesso al banchetto dei cieli. Il contrario della misericordia è l'iniquità, che allontana totalmente dal Signore. Di fronte alla giustizia degli scribi e dei farisei, che non basta per entrare nel Regno di Dio, è necessario vivere della «giustizia superiore» (Mt 5,20).




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