"Shemà Israel"




La "saggezza" dell'uomo consiste nel saper rispondere a una domanda, quella decisiva: "Qual'è il primo dei comandamenti?". La parola comandamento traduce diversi termini ebraici che indicano, tra l'altro, una parola che affida un incarico. Il comandamento è, dunque, una missioneLa domanda che appare nel Vangelo allora, può significare: "Quale è la missione che mi è affidata?". Per rispondere dobbiamo andare all'incipit del Decalogo, le Dieci Parole di Vita vergate con il fuoco dell'amore divino e rivelate sul Sinai. Esse iniziano con la memoria di un'esperienza: la liberazione dall'Egitto. Lo stesso incipit dello Shemà, nel quale l'amore esclusivo a Dio e al prossimo scaturisce dall'esperienza dell'unicità di Dio"Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che "solo il Signore suo Dio" può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del faraone. Vuole servire il solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto" (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). Per questo lo Shemà è un annuncio, una profezia che sgorga da un memoriale, la rivelazione di un'identità: Ascolta Israele, il Signore è uno. La missione affidata a Israele prima e alla Chiesa poi, l'incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l'identità di Colui che incarica e affida la missione. Nella relazione di intima comunione tra Liberatore e liberato è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande. Nel dialogo tra lo scriba e Gesù si legge in filigrana tutta la storia di Israele che, proprio in quel momento, trova pienezza e compimento. Per questo Gesù conclude congratulandosi con lo scriba dicendogli che non è lontano dal Regno di Dio: ascoltando le parole dello Shemà non pensa ad un impegno moralistico, ma rivede la sua vita salvata e condotta nella Terra Promessa, che diviene segno come quella del suo Popolo. Anche per noi risuonano in questa Quaresima le stesse parole, per ridestare in noi la memoria delle meraviglie compiute da Dio nella nostra vita, seno benedetto della missione che ci è affidata.   Essa consiste proprio in ciò che la Quaresima significa, l'esodo dalla condizione servile alla libertà, dall'Egitto alla Terra Promessa, dalla morte alla vita, dal peccato all'amore totale e senza condizioni. Per questo al cuore della Quaresima vi è l'ascolto. In ebraico i termini "ascolto" e "obbedienza" coincidono: così, nella parola dello Shemà, l'ascolto si fa obbedienza, nella quale l'amore si rivela autentico e incorruttibile. Solo nell'obbedienza che si abbandona senza riserve all'amore di Cristo si compie il "comandamento più grande", il comandamento dell'uomo libero. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perché non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il faraone vi è disordine, (secondo l'etimologia del termine faraone), e l'uomo vive dissipato; cuore, anima e forze si combattono conducendo l'uomo a una schizofrenia interiore che lo distrugge. La sperimentiamo quando chiudiamo l'orecchio al fratello, al catechista, al presbitero, a Dio; e cominciamo a non raccapezzarci più, non capiamo la moglie, non riusciamo a perdonare il marito, al lavoro è una lotta senza pietà; lo stesso che accade ai figli quando non ascoltano e non obbediscono: nervosismo, insoddisfazione, la vita diventa come i pantaloni che indossano, sfilacciati eppure costosissimi. Apriamo allora l'orecchio in questo tempo di conversione e invitiamo tutti a farlo; molto meglio che discutere e polemizzare. Per perdonarci tra coniugi, per strappare i figli alla tristezza e ai peccati, mettiamoci all'ascolto della Parola, l'unica possibilità offerta all'uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". A chi consegnare se stessi se non a Gesù sul letto d'amore della Croce, dove Lui si è consegnato a noi? Dio infatti è "unico" perché il suo amore è l'unico che scende, con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l'unico che ci ama così come siamo. Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci di amare e di salvare? Non si tratta di un impegno, di buona volontà, ma dell'amore a chi ci ha amato per primo, dal quale sgorga, naturalmente, l'amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico. Per questo lo Shemà è il "comandamento più importante", la roccia su cui erigere l'esistenza, la stabilità nell'instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà crocifisso è il fondamento del matrimonio, del fidanzamento, dell'amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Non vi è argomento di discussione, non vi è problema, difficoltà o sofferenza, non vi è precarietà, non vi è differenza e attrito, non vi è male che abbia ragione dell'amore che compie lo Shemà. Esso incarna il Cielo in ogni questione della terra, mette in fila le priorità e i valori, illumina le questioni più intricate. Lo Shemà è l'antidoto al fallimento dei rapporti: chi vive lo Shemà non dirà mai "non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima", perché esso inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell'elezione a vivere sulla terra l'amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi.


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