Mercoledì della XXVIII settimana del Tempo Ordinario






SINTESI


"Innalzate una siepe per la Torah" avevano insegnato i Padri al tempo dell'esilio. Essi credevano che sul Sinai, accanto alla Torah scritta, Dio avesse rivelato a Mosè anche la Torah orale; una serie di precetti che raggiungevano ogni aspetto della vita - le "altre cose" che Gesù stesso invita a "non trascurare" - perché in tutto fosse protetta la fedeltà all'Alleanza, pur vivendo nella Babilonia pagana. E' cura dei figli pagare la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio per ricordare che tutto è dono del Padre e di nulla ci si può appropriare. Per questo i "guai" severi di Gesù non si riferiscono all'osservanza dei precetti, ma sono fendenti che mirano al cuore. "Guai a voi!", guai al vostro cuore che  trascura l'amore gratuito di Dio! Chi trascura infatti non ama, è un ipocrita infedele. Quante volte abbiamo tras-curato, siamo passati oltre la cura dovuta alla moglie, al marito, ai genitori, presi dai nostri inderogabili impegni? Quanti "no" sbrigativi sbattuti in faccia ai figli invece di curare con calma in loro il "si" a Cristo? Scandalizzati della nostra e dell'altrui debolezza e impauriti dalla precarietà, come i farisei ci separiamo dal male che ci circonda illudendoci di portare il peso insopportabile dei nostri moralismi che però carichiamo su chi ci è accanto come i dottori della legge, convinti che sia amore. Invece, non amiamo altri che noi stessi; corriamo per raggiungere i primi posti, affamati di autorità che significa potere, per sentirci amati: ma lasciamo indietro le persone che Dio ci ha messo accanto, tras-gredendo la misericordia e l'amore, andando al di là del loro passo, che ne è l'unica misura. Senza la cura attenta del Tu restiamo imprigionati nella solitudine superba dell'Io, sepolcro che ci chiude nella stessa trascuratezza e irrilevanza che abbiamo riservato agli altri. Il Signore ci chiama oggi a conversione, a ritornare sui passi della nostra storia e ricordare i memoriali del suo amore, a tornare indietro laddove abbiamo trascurato il fratello per prendere insieme il giogo soave e leggero di Cristo. Solo "curando giustizia e misericordia", infatti, non "trascureremo" neanche il minimo dettaglio di una vita santa. Solo avendo cura del rapporto intimo con Cristo saremo un segno di speranza e non di condanna; solo crocifissi con Cristo perché sia Lui a vivere in noi ogni istante, saremo l'avanguardia di misericordia alla quale potranno bussare tutti quelli che vivono senza "giustizia".






L'ANNUNCIO
Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l'amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, che avete cari i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. Guai a voi perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo». Uno dei dottori della legge intervenne: «Maestro, dicendo questo, offendi anche noi». Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!
(Dal Vangelo secondo Luca 11,42-46)




"Innalzate una siepe per la Torah" avevano insegnato i Padri al tempo dell'esilio. Essi credevano che sul Sinai, accanto alla Torah scritta, Dio avesse rivelato a Mosè anche la Torah orale; una serie di precetti che raggiungevano ogni aspetto della vita - le "altre cose" che Gesù stesso invita a "non trascurare" - perché in tutto fosse protetta la fedeltà all'Alleanza, la santità (separazione) del Popolo Eletto, il segno di Dio deposto nella Babilonia pagana. E' cura dei figli "pagare la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio" per ricordare che tutto è dono del Padre e di nulla ci si può appropriare. 


Dietro a questi precetti, a differenza di quello che può sembrare, vi è un'attenzione ai particolari tipica dell'amore. "Pagare la decima" della menta", di erbaggi piccoli e quasi insignificanti significa accogliere tutto in uno sguardo di rispetto e tenerezza che a tutto dà valore: un marito che ama davvero sa cogliere gli aspetti più nascosti, le sofferenze e le ansie meno evidenti della moglie, senza banalizzare nulla, relativizzando quando qualcosa si fa assoluta, ma cospargendo su ogni ferita il balsamo della compassione che verga d'eterno anche l'attimo più grigio e triste: "L'adempimento di un precetto non è il piegarsi sotto la frusta del legislatore, ma, strettamente inteso, è la felice possibilità di dare un valore eterno a ciò che è transitorio" (N. Oswald).



Gesù ha compiuto questi precetti nell'amore sino in fondo... Siamo noi la "ruta e la menta", come "ogni erbaggio" sta a significare tutte le persone di ogni generazione: per ciascuno ha versato la decima, non ha tralasciato di far giungere il suo amore e la sua giustizia sino alle zone più intime e nascoste della vita di tutti. Per Lui era "necessario" essere crocifisso per compiere ogni iota della Legge, e così perdonare ogni nostra trasgressione. Ha "curato" ogni dettaglio della nostra vita per farci "giusti" nel suo "amore". Non c'è contraddizione tra l'amore e il precetto: essa esplode solo quando si assolutizza il fare dell'uomo a scapito del dono di Dio. Le decime erano una siepe che proteggeva dall'oblio di questa verità fondamentale; dimenticando di essere creatura si finisce con il credersi Dio. Ma una siepe circonda il giardino, non cresce al centro di esso: è da stolti curare una siepe e dimenticare la casa che essa protegge. 

Per questo i "guai" severi di Gesù non si riferiscono all'osservanza dei precetti, ma sono fendenti che mirano al cuore: "Guai a voi!", guai al vostro cuore che "trascura la giustizia e l'amore gratuito di Dio!". Chi trascura, infatti, non ama, è un ipocrita infedele. Quante volte abbiamo tras-curato, siamo passati oltre la cura dovuta alla moglie, al marito, ai genitori, presi dai nostri inderogabili impegni? Quanti "no" sbrigativi sbattuti in faccia ai figli invece di curare con calma in loro il "si" a Cristo? Come Pietro che passava oltre le parole di Gesù e voleva fermarlo nella sua salita a Gerusalemme: "Questo non ti accadrà mai!". Pietro, il primo Papa, tu ed io, quando ci mettiamo di traverso e siamo di scandalo ai piccoli nel loro cammino verso il compimento della volontà di Dio. Sì, "guai" a te e a me oggi, che ci lasciamo ispirare pensieri, giudizi e parole da satana. 

"Guai a te satana" che inganni tua moglie e tuo marito, i tuoi figli, i fratelli e i fedeli affidati alle tue cure di presbitero, "caricando" sulle loro povere spalle "pesi insopportabili": sono i moralismi dei quali la nostra concupiscenza scatenata dal fallimento vorrebbe nutrirsi. Siamo, infatti, scandalizzati della nostra e dell'altrui debolezza e impauriti dalla precarietà; quante volte ci lasciamo assillare dai problemi contingenti dimenticando la "giustizia e l'amore di Dio" che i nostri occhi hanno visto compiuti nella nostra vita. Erigiamo una siepe per proteggerci dal paganesimo che ci assedia: la scuola che troppo spesso insidia i nostri figli, le loro amicizie, la televisione, internet e i social networks; ma dimentichiamo il potere di Colui che ci ha posti in mezzo a Babilonia come un candelabro. Abbiamo trascurato lo Spirito per sottolineare la lettera: prima, molto prima di sottolineare le regole morali, occorre annunciare la vittoria di Cristo sul peccato, la "giustizia" che ha riscattato la nostra vita dall'ingiustizia del peccato immergendola nella "misericordia". Non ci ha salvato così il Signore? Scriveva Benedetto XVI: "Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo « prima » di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi". Allora, proprio quel figlio che vorresti educare nel terrore è il segno della tua vita salvata e rinnovata nella Grazia! Lo guardi, lo scopri debole e indifeso, ma proprio non riesci a specchiarti in lui. Non certo per un lassismo vigliacco figlio del Sessantotto demoniaco. Non si tratta di lasciarlo libero perché deve fare le stesse nostre esperienze e poi crescendo capirà da solo. Si tratta della libertà nella quale siamo stati allevati, abbracciata misteriosamente dalla misericordia più forte di ogni peccato. 


Quando Dio ha detto ad Adamo ed Eva di non mangiare dell'albero perché sarebbero morti, aveva innanzitutto annunciato l'amore nel quale erano stati creati, la possibilità di vivere in comunione con Lui, obbedendo alla propria vocazione di custodire e coltivare il giardino, di crescere e moltiplicarsi. E aveva dato loro il potere su ogni animale, anche sul serpente. Ma Dio amava l'uomo che aveva creato a sua immagine e somiglianza, lo amava al punto di lasciarlo libero di scavalcare la siepe e farsi male. Lo amava al punto, dice la tradizione ebraica, da aver creato prima di ogni cosa la misericordia per poter tornare a Lui, la conversione come "misura preventiva" per non lasciare che l'uomo svanisca oltre il giardino, al di là della siepe.





E tu, ed io, quando parliamo con i figli, o con il coniuge, o con chi sia, abbiamo in noi questo amore? Quando un prete parla con un fedele a lui affidato, ha nel cuore la "giustizia e la misericordia" preventive? Li guarda cioè dentro questa siepe di amore allargata a dismisura, perché l'altro possa ascoltare le parole di verità che illuminano gli inganni del demonio e le conseguenze del peccato, come un abbraccio che non lo lascerà mai, costi quel che costi, faccia quel che faccia? Le nostre parole e i nostri gesti lasciano la porta di casa aperta e seminano nel cuore dell'altro un chicco di nostalgia che possa percuotergli il petto quando si venisse a trovare a pascolare porci senza potersi sfamare come il figlio prodigo? Abbiamo fatto della nostra casa, della nostra famiglia, della nostra parrocchia, della comunità cristiana, un luogo di "giustizia" e "misericordia" dove chi vi abita sa di poter ritornare? Un luogo capace di generare la nostalgia dell'amore che vi si è sperimentato? Oppure sono delle sinagoghe costruite sull'ipocrisia che si trasformano in tribunali impietosi? O sono case opprimenti che puzzano di leggi e regole senza Spirito che carichiamo sugli altri senza averne mai sperimentato il peso? Rispondiamo sinceramente, non sono le nostre famiglie dei templi innalzati al nostro ego ipocrita? 

Ammettiamolo, anche noi "amiamo i primi posti" e "l'essere salutati" più di ogni altra cosa. Abbiamo fatto di noi stessi il centro dell'universo, e questo chi ci è accanto lo annusa e lo detesta... Il verbo usato da Luca, infatti, è "agape", l'amore di Dio rivelato in Cristo, assoluto ed eterno, che, riversato nel cuore dei cristiani, ne costituisce la caratteristica fondamentale. Ciò significa che Gesù sta dicendo ai farisei che il loro amore per il prestigio e il potere, simulacri dell'amore a se stessi, è una caricatura ridicola e tragica dell'amore di Dio per l'uomo e di Dio per l'uomo; una maschera, un'ipocrisia... I farisei avevano rovesciato lo Shemà, il cuore della fede di Israele: invece che Dio come oggetto dell'amore, vi avevano posto loro stessi: "Amerai te stesso, il tuo dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Ovvio che il prossimo restasse escluso dal loro amore, mentre avrebbe dovuto tributarlo al loro ego trasformato in dio. 


Come i farisei, abbiamo trascurato l'amore di Dio. Il demonio ci ha rubato la memoria della sua misericordia che ci ha fatto giusti: "Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore" (Benedetto XVI). Per questo chiediamo alla morale o all'etica esterne al cuore un salvacondotto per passare indenni nel combattimento della vita; un'assicurazione sulla vita, che ci garantisca la "giustizia" tra tante ingiustizie. Chi non riconosce il soffio dello Spirito Santo in Papa Francesco è rinchiuso nella propria pretesa giustizia, si sta affidando agli instabili equilibri raggiunti, e non si accorge della debolezza degli altri; oppure sta inconsciamente trasformando la Grazia che lo "tiene in piedi" in un idolo religioso, un segno di appartenenza per "non cadere", separando se stesso e il gruppo di chi la pensa allo stesso modo dal male del mondo. E si mette, proprio come i farisei, in antagonismo con il mondo, erigendo siepi dall'apparenza religiosa, ma che in realtà sono steccati invalicabili, buoni solo ad innescare negli altri chiusure sempre più ermetiche. La Chiesa non ha mai blandito la dottrina ma ha annunciato il Vangelo della vittoria di Cristo sulla morte e il peccato, per suscitare nei peccatori il desiderio di una vita diversa, quella felice e "giusta" contemplata nei cristiani allevati e ricreati nella "misericordia".

Quando a casa o sui media issiamo "siepi" di leggi senza Spirito stiamo "amando i primi posti", perché ci riteniamo giusti più degli altri. Siamo così ciechi che ci stupiamo se gli altri non ci "salutano nelle piazze" dove manifestiamo in favore di Dio, della Chiesa e della sua dottrina morale e sociale. Ma se per difendere noi e i nostri figli polemizziamo e condanniamo chi è accecato dal demonio, siamo "sepolcri" irrilevanti, non luce posta sul candelabro!

I farisei cercavano il "saluto" perché apparivano come dei santi, e questo avrebbe dovuto proteggerli dalle tentazioni e dal male circostante. Ma era pura ipocrisia, fumo senza arrosto, incapace di proteggere perché il cuore restava infermo... Come accade a noi, quando imponiamo leggi e ne esigiamo il rispetto. Non cambia nulla in chi ne è vittima, non cambia nulla in noi. Deboli ed esposti al male restano loro, vuoti e frustrati noi. E, come i farisei e i dottori della legge, nuotiamo nella vita come squali affamati: incapaci di compiere il bene, di amare e "giudicare" cosa sia bene e cosa sia male, secondo il senso originale del termine tradotto con "giustizia", restiamo vuoti e senza gratificazione. Per questo ci aggiriamo in cerca di cibo capace di saziare la fame dell'uomo vecchio: il successo e il prestigio da una parte, l'obbedienza ai nostri criteri, alle nostre idee e alle nostre imposizioni dall'altra. 

Tutto per sentirci vivi, mentre tutto ci ripete che siamo morti. Il primeggiare, infatti, è sempre una corsa verso il "sepolcro" dell'irrilevanza. Più cerchiamo di sfuggirla più essa ci risucchia come in una tomba della quale nessuno si accorge, come quelle vecchie che troviamo nelle chiese, sulle quali non si legge più neanche il nome del defunto. Più cerchiamo di "passare avanti" alla volontà di Dio, costruendocene una nostra che vorremmo far passare per sua, più restiamo frustrati. Non siamo noi i creatori di noi stessi, solo Dio può sapere che cosa ci fa bene; Lui sa che la nostra felicità e la nostra realizzazione sta nel seguirlo sui sentieri della misericordia, dell'amore disinteressato che giunge sino al nemico. Quando, invece, ingannati dal demonio, svuotiamo la Legge dello Spirito, anche se è Legge della Torah, anche se è Parola di Dio, essa diventerà così inumana e "insopportabile" da schiacciare noi e quelli a cui la imponiamo. Non diciamo poi di quelle che abbiamo formulato noi, a casa, al lavoro, anche nella Chiesa... Se è opera nostra la esigeremo con più moralismo, perché, ormai scivolati sul piano inclinato della concupiscenza che è ogni giorno più insaziabile, dobbiamo vederla compiersi in qualcuno, per non morire sotto le macerie del fallimento. 



Per questo, proporzionalmente ai nostri fallimenti e alle nostre frustrazioni, all'irrilevanza e all'oblio che sperimentiamo, carichiamo sugli altri i "pesi che non abbiamo saputo portare". Assolutamente fuori misura, figli di un'illusione e di un delirio di onnipotenza tale e quale a quello del demonio, sono pesi che uccidono. E così neanche l'aver oppresso chiunque ci stia accanto ci sazia, perché tra i lacci dei moralismi esigiti e caricati su coniugi, figli e nipoti, le relazioni esplodono e radono al suolo ogni sentimento. La verità è che non amiamo altri che noi stessi; corriamo per raggiungere i primi posti, lasciando indietro le persone che Dio ci ha messo accanto, andando al di là del loro passo, che è l'unica misura dell'amore autentico. Chi ama sa decelerare, sa anche fermarsi, sa addirittura lasciarsi passare avanti da chi ha accanto. Sa aspettare, sa restare in silenzio e dire la parola giusta al momento giusto. Chi ama il figlio non lo sorpassa mai, ma lo guida con l'esempio di chi si fa tutto a tutti per amore; e lo aiuta facendosi ultimo per poterlo sospingere con la misericordia. Così ci ha amati il Signore, servo che ha lasciato passare tutti avanti, rinunciando a se stesso, per farci entrare nel Cielo. 

Senza la cura attenta del Tu restiamo imprigionati nella solitudine superba dell'Io, sepolcro che ci chiude nella stessa trascuratezza e irrilevanza che abbiamo riservato agli altri. Il Signore ci chiama oggi a conversione, a ritornare sui passi della nostra storia e ricordare i memoriali del suo amore e a tornare indietro laddove abbiamo trascurato il fratello per prendere insieme il giogo soave e leggero di Cristo. A fare memoria di come Lui ci ha salvati e protetti, rincorrendoci mille volte sui sentieri del paganesimo. E così riconoscere nella "siepe" l'amore di Dio che ci libera dal carcere grigio e frustrante di leggi incompiute, di desideri inappagati, di ideali spezzati. Il suo amore compie ogni legge, perché ogni Legge trova compimento nel suo amore. Accettiamo oggi e ogni giorno la precarietà, nostra e degli altri, nell'attesa del suo aiuto e della sua misericordia, del suo amore capace di fare del fallimento più cocente un successo strepitoso. 








αποφθεγμα Apoftegma






Non è dunque una misura la moralità cristiana;
è l'adesione ad una Presenza, 
all'Essere che è mistero personale 
e origine costitutiva della creatura umana.

Mons. Luigi Giussani


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