23 dicembre






La sinfonia della guarigione



Oggi, come ha fatto Papa Francesco con i cardinali della Curia, è il giorno dell'esame di coscienza, perché altrimenti anche questo Natale passerà invano: "La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura". Facciamo allora un esame serio che ci conduca a riconoscerci sterili come Elisabetta, malati sin dentro le nostre viscere, la nostra mente e il nostro cuore: "tali malattie e tali tentazioni sono un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario". Tutti siamo affetti dalla "malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”, che deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi". Così come "la malattia del martalismo (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi sotto i piedi di Gesù". C'è poi "la malattia dell'impietrimento mentale e spirituale di coloro che posseggono un cuore di pietra. È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per farci piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono i sentimenti di Gesù". Anche in famiglia soffriamo per "la malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo". Programmiamo la vita nostra e degli altri, come dovrebbero essere la moglie, il marito e i figli. E così ci aggredisce anche "la malattia della rivalità e della vanagloria", insieme a quella "delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi"; il virus attecchisce "semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri" fratelli. Ci ammaliamo così perché non ci siamo vaccinati contro "la malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso"; né contro la "malattia dell’indifferenza verso gli altri". Ma tutte queste malattie ci hanno debilitato perché, riconosciamolo, abbiamo perduto "il primo amore" e ci siamo ammalati di "alzheimer spirituale, che è la dimenticanza della “storia della salvezza”, della storia personale con il Signore", per cui cominciamo a "dipendere completamente dal nostro presente, dalle passioni, capricci e manie" e "costruiamo intorno a noi dei muri e delle abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che abbiamo scolpito con le nostre stesse mani". Con essa arrivano sempre "la malattia dell’accumulare, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro"; e quella del "profitto mondano, degli esibizionismi". E così, giorno dopo giorno, ha il sopravvento la "malattia della schizofrenia esistenziale", quella di chi "vive una doppia vita, frutto dell’ipocrisia". Non abbiamo anche noi creato "un nostro mondo parallelo iniziando a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta"? Allora appare "la malattia della faccia funerea. Ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza". Ecco, questa è la radiografia del nostro cuore sterile. Ma risuona oggi, alle soglie di questo Natale, un nome nuovo, Giovanni, che significa Dio fa grazia ora, per una storia che comincia ora.
 Giovanni, come il nostro cuore assetato d’amore. Giovanni, l’intimo di noi che anela a Cristo. Giovanni, la Parola di Dio che ci accoglie e introduce nel Natale: è finita la nostra schiavitù al peccato, matrice d'ogni dolore. La sua nascita dal seno sterile di Elisabetta ne è il segno. Attraverso Giovanni oggi possiamo guardare la nostra vita con occhi diversi: Dio "ha esaltato in noi", come in Elisabetta, "la sua misericordia". Oggi "si compiono anche per noi i giorni del parto": comincia una vita nuova! Coraggio, proprio quel tessuto sterile, ammalato e incapace di accogliere la vita che è il tuo cuore è pronto per il miracolo. I peccati preparavano il posto al perdono come la malattia l'intervento del medico. La nostra storia di cadute e umiliazioni ci ha condotto a quest’oggi di Grazia e di gioia. Da soli non ce l'abbiamo fatta ad uscire dai peccati. E quanto dolore, in noi e intorno a noi. Quanta "vergogna", e quanto disprezzo verso noi stessi e gli altri. Ma oggi "nulla è impossibile a Dio" significa che l'amore di Dio ha il potere di trasformare la morte in vita, il nostro cuore duro come pietra in un cuore di carne capace di amare e generare vita nuova in noi e attorno a noi. Accostiamoci allora al sacramento della riconciliazione, confessiamo i nostri peccati e riceviamo il perdono e lo Spirito Santo per camminare in una vita nuova. Andiamo a chiedere perdono e a perdonare chi ci è accanto. Magari quel parente che sono anni che non ci parli, forse tua moglie, tuo padre. Come Giovanni, "cresciamo e rafforziamoci nello Spirito" pregando e meditando la Parola di Dio. "Serbiamola nel cuore" per imparare a credere all'impossibile che Dio può compiere, fonte di "meraviglia" e "timore". La misericordia di Dio, infatti, non solo ci perdona, ma fa di noi creature nuove, un Nome nuovo che il mondo, i nostri parenti, nessuno conosce. Davvero, “che sarà mai questo bambino?”, che sarà mai la nostra vita? Sarà senza dubbio una stupenda e perfetta sinfonia d'amore. L'origine dei nomi delle sette note musicali infatti ha relazione proprio con Giovanni Battista. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, ciascuno di questi termini è tratto dalla prima sillaba dei sette versi della prima strofa dell'inno liturgico “Ut queant laxis”, che fu composto in onore del Battista. Guido d'Arezzo, colui al quale dobbiamo il rigo musicale e il nome delle note in Occidente, si servì di questo inno a scopo didattico. Applicando al testo dell'Inno una nuova melodia, mise in risalto al principio di ciascun verso, la successione delle attuali note musicali, UT, RE, MI, FA, SOL, LA. La prima sillaba di ogni verso inizia salendo di tono rispetto a quella precedente, costituendo così la moderna scala ascendente.


Ut queant laxis
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum
Solve polluti
Labii reatum
Sancte Johannes.

Affinché possano cantare
con voci libere
le meraviglie delle tue gesta
i servi Tuoi,
cancella il peccato
dal loro labbro impuro,
o San Giovanni.

L’UT, divenne poi in Italia DO. La medievale UT restò invece in Francia, dove è usato ancora oggi; il SI (S J Sancte Johannes), anch'esso per influsso dell’inno a San Giovanni, venne probabilmente introdotto alla fine del Quattrocento. La nostra vita, come quella di Giovanni, è destinata dunque ad essere un'opera d'arte, un inno eterno all'amore di Dio. Ogni istante come una nota musicale a segnare l'opera divina nella nostra povera carne sterile che diviene feconda. Una scala che, passo dopo passo, ci condurrà al Cielo. 
Ci attende una missione meravigliosa, annunciare il Messia come Giovanni. Il Signore, giorno dopo giorno, ci rivelerà come e dove le sue note d'amore daranno Vita e gioia alla nostra vita e a quella ai quali saremo inviati. 









    






L'ANNUNCIO
Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 
I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. 
All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. 
Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 
Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 
Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 
In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 
Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui.
 (Dal Vangelo secondo Luca 1,57-66)





Un nome nuovo, Giovanni, Dio di Misericordia, le viscere d’amore a cui tutti aneliamo. Che cos'è la nostra vita se non una continua ricerca di misericordia, di un amore che ci accolga nel suo grembo senza condizioni, così come siamo. Un amore che non presenti conti da pagare, per il quale non doversi acconciare. Un amore che ci faccia liberi d’essere esattamente quello che siamo. Nessuno nella nostra parentela porta questo nome. La carne non lo prevede, perché è schiava del peccato. 

I rapporti, tutti, si infrangono sul limite severo della carne. Ne abbiamo l’esperienza, spesso dolorosa. Tutti noi siamo frutti d’una storia concreta, fatta di persone, di incontri, di eventi. Come la storia del Popolo di Israele, l’eletto incapace di reggere la prova della libertà. Il Popolo infedele. Una storia di schiavitù e liberazioni, di adulteri e perdoni. Come la nostra vita. Una linea diritta sulle orme di una promessa. Di più, un cammino tenace verso il Promesso, il Messia, il Salvatore. Il Figlio che compirà, con la sua carne, la Legge che la nostra carne ha reso irrealizzabile. Giovanni è la soglia della speranza, l’uscio socchiuso sul compimento di ogni promessa.




Ma oggi, su questa porta che ci separa dal Natale, è il giorno dell'esame di coscienza, come ha fatto Papa Francesco con i cardinali della Curia, perché altrimenti anche questo Natale passerà invano: "La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura". Facciamo allora un esame serio che ci conduca a riconoscerci sterili come Elisabetta, malati sin dentro le nostre viscere, la nostra mente e il nostro cuore: "tali malattie e tali tentazioni sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario". Tutti siamo affetti dalla "malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”, che deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi". 

Così come "la malattia del martalismo (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi sotto i piedi di Gesù". C'è poi "la malattia dell'impietrimento mentale e spirituale di coloro che posseggono un cuore di pietra; strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche e non uomini di DioÈ pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per farci piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono i sentimenti di Gesù, sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità". 

Anche in famiglia soffriamo per "la malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo, perché è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate". Programmiamo la vita nostra e degli altri, come dovrebbero essere la moglie, il marito e i figli, tenendo fuori le novità dello Spirito Santo, e così ci aggredisce anche "la malattia della rivalità e della vanagloria", insieme a quella "delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi"; il virus attecchisce "semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi omicida a sangue freddo della fama dei propri" fratelli. "È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle". 


Ci ammaliamo così perché non ci siamo vaccinati contro "la malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso"; né contro la "malattia dell’indifferenza verso gli altri". 

Ma tutte queste malattie ci hanno debilitato perché, riconosciamolo, abbiamo perduto "il primo amore" e ci siamo ammalati di "alzheimer spirituale, che è la dimenticanza della “storia della salvezza”, della storia personale con il Signore"; quando "perdiamo la memoria dell'incontro con il Signore" cominciamo a "dipendere completamente dal nostro presente, dalle passioni, capricci e manie" e "costruiamo intorno a noi dei muri e delle abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che abbiamo scolpito con le nostre stesse mani". 

Con essa arrivano sempre "la malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro"; e quella del "profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. E' la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri". 

E così, giorno dopo giorno, ha il sopravvento la "malattia della schizofrenia esistenziale", quella di chi "vive una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare". Andiamo a messa, frequentiamo gruppi, associazioni, movimenti, stiamo camminando in una comunità, ma tutti questi "titoli" non bastano. Il cuore, dov'è? Il cuore di tuo figlio a cui hai insegnato di studiare, di farsi una posizione, dov'è? Così "creiamo un nostro mondo parallelo iniziando a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta". Allora ecco apparire "la malattia della faccia funerea. Ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé". 

Ecco, questa è la radiografia del nostro cuore sterile. Eppure qualcosa, sin dal principio della vita, ci ha sempre detto che esiste l’amore, che siamo fatti d’amore, per amare ed essere amati. Ma occorreva per noi e per ogni uomo un miracolo: la misericordia di Dio. Non l’abbiamo conosciuta nella carne, non v’è n’è traccia nella storia "famosa" e patinata del mondo. 




Ma risuona oggi, alle soglie di questo Natale, un nome nuovo, Giovanni; un nome che è una storia da afferrare per ricominciare a sperare. Giovanni, come il nostro cuore assetato d’amore. Giovanni, l’intimo di noi che anela a Cristo. Giovanni, la Parola di Dio che ci accoglie e introduce nel Natale: è finita la nostra schiavitù. La sua nascita dal seno sterile di Elisabetta ne è il segno. Tutta la storia di Israele e dell'umanità è in quel grembo, sterile vigna senza frutto. E proprio lì accade il miracolo della misericordia, il nome nuovo che ci è offerto nelle malattie che ci hanno fatto soffrire. 

Attraverso Giovanni oggi possiamo guardare la nostra vita con occhi diversi. Dio "ha esaltato in noi", come in Elisabetta, "la sua misericordia". Si è chinato sulla nostra sterilità e ne ha fatto un prodigio di fecondità. E' finita la feroce schiavitù al peccato, matrice d'ogni dolore. Oggi anche per noi "si compiono i giorni del parto": comincia una vita nuova! Coraggio, proprio quel tessuto sterile, ammalato e incapace di accogliere la vita che è il tuo cuore è pronto per il miracolo. I peccati preparavano il posto al perdono come la malattia l'intervento del medico, e non lo sapevi. La nostra storia di cadute e umiliazioni ci ha condotto a quest’oggi di Grazia e di gioia. 




Tutto in noi ha preparato l’incontro con la misericordia di Dio. Da soli non ce l'abbiamo fatta ad uscire dai peccati. E quanto dolore, in noi e intorno a noi. Quanta "vergogna", e quanto disprezzo verso noi stessi e gli altri. Per questo sei così adirato con il mondo, non sopporti le ingiustizie, non trovi pace e gioia autentiche in nulla. Ma oggi "nulla è impossibile a Dio" significa che l'amore di Dio ha il potere di trasformare la morte in vita, il nostro cuore duro come pietra in un cuore di carne capace di amare e generare vita nuova in noi e attorno a noi: "è solo lo Spirito Santo a guarire ogni infermità. È lo Spirito Santo che sostiene ogni sincero sforzo di purificazione e ogni buona volontà di conversione" (Papa Francesco). 

Coraggio, siamo nella Chiesa! Per questo, come "Sant’Agostino ci dice: Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi". Accostiamoci al sacramento della riconciliazione, confessiamo i nostri peccati e riceviamo il perdono e lo Spirito Santo per camminare in una vita nuova e andare a chiedere perdono e perdonare chi ci è accanto. Magari quel parente che sono anni che non ci parli, forse tua moglie, tuo padre. 




Come Giovanni, cresciamo e rafforziamoci nello Spirito pregando e meditando la Parola di Dio. "Serbiamola nel cuore" per imparare a credere all'impossibile che Dio sa compiere, fonte di "meraviglia" e "timore". La misericordia di Dio, infatti, non solo ci perdona, ma fa di noi creature nuove, un Nome nuovo che il mondo, i nostri parenti, nessuno conosce. 

Davvero, “che sarà mai questo bambino?”, che sarà mai la nostra vita? Sarà senza dubbio una perfetta sinfonia d'amore. L'origine dei nomi delle sette note musicali infatti ha relazione proprio con Giovanni Battista. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, ciascuno di questi termini è tratto dalla prima sillaba dei sette versi della prima strofa dell'inno liturgico “Ut queant laxis”, che fu composto in onore del Battista. Guido d'Arezzo, colui al quale dobbiamo il rigo musicale e il nome delle note in Occidente, si servì di questo inno a scopo didattico. Applicando al testo dell'Inno una nuova melodia, mise in risalto al principio di ciascun verso, la successione delle attuali note musicali, UT, RE, MI, FA, SOL, LA. La prima sillaba di ogni verso inizia salendo di tono rispetto a quella precedente, costituendo così la moderna scala ascendente.

Ut queant laxis
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum
Solve polluti
Labii reatum
Sancte Johannes.


Affinché possano cantare
con voci libere
le meraviglie delle tue gesta
i servi Tuoi,
cancella il peccato
dal loro labbro impuro,
o San Giovanni.

L’UT, divenne poi in Italia DO. La medievale UT restò invece in Francia, dove è usato ancora oggi; il SI (S J Sancte Johannes), anch'esso per influsso dell’inno a San Giovanni, venne probabilmente introdotto alla fine del Quattrocento. 


La nostra vita, come quella di Giovanni, è destinata dunque ad essere un'opera d'arte, un inno eterno all'amore di Dio. Ogni istante come una nota musicale a segnare l'opera divina nella nostra povera carne sterile che diviene feconda. Una scala che, passo dopo passo, ci condurrà al Cielo. «Che sarà mai questo bambino?». Tutto è santo, tutto sarà meraviglioso, nulla si scarterà. Il Signore, giorno dopo giorno, ci rivelerà come e dove le sue note d'amore daranno Vita e gioia alla nostra vita e a quella ai quali saremo inviati. 

Ci attende una missione meravigliosa, annunciare il Messia, l’atteso delle genti, quando e come Dio vorrà: "Essere testimoni della luce, e possiamo esserlo solo se portiamo in noi la luce, se siamo non solo sicuri che la luce c’è, ma che abbiamo visto un po’ di luce. Nella Chiesa, nella Parola di Dio, nella celebrazione dei Sacramenti, nel Sacramento della Confessione, con il perdono che riceviamo, nella celebrazione della Santa Eucaristia dove il Signore si dà nelle nostre mani e cuori, tocchiamo la luce e riceviamo questa missione: essere oggi testimoni che la luce c’è, portare la luce nel nostro tempo" (Benedetto XVI, Omelia dell'11 dicembre del 2011).







αποφθεγμα Apoftegma





Giovanni Battista  il precursore, semplice testimone, 
totalmente subordinato a Colui che annuncia; 
una voce nel deserto, come anche oggi, 
nel deserto delle grandi città di questo mondo, 
di grande assenza di Dio, 
abbiamo bisogno di voci che semplicemente ci annunciano: 
"Dio c’è, è sempre vicino, anche se sembra assente"
E’ una voce nel deserto ed è un testimone della luce; 
e questo ci tocca nel cuore, 
perché in questo mondo con tante tenebre, 
tante oscurità, tutti siamo chiamati ad essere testimoni della luce.


Benedetto XVI, Omelia dell'11 dicembre 2011


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