Martedì della I settimana del Tempo di Quaresima. Commento completo




Chiacchieriamo e ci piace intrattenerci con le parole. Talk-show e salotti, il piacere della parola. Soprattutto gridata, brandita come un'arma, la regina di questa società travestita come uno show, apparenza pura spacciata per "reality". Mentre la Scrittura ci rivela che il reale nasce sì da una Parola, ma dall'unica autentica, la Parola di Dio. "Sia la luce". E la luce fu. Una Parola che si compie, fatta carne nella pienezza dei tempi. Una Parola, l'unica, che salva smascherando le vuote parole di tutti noi, quelle mai pensate, sempre buttate.

Purtroppo le infiliamo spesso alla rinfusa anche nelle preghiere che sembrano sgorgare da cuori impazziti di orfani senza certezze. Per pregare davvero occorre una certezza. Una sola. Che siamo figli. «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia» (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in I Misteri). Per sperare e pregare senza dubitare è necessaria l'esperienza di avere un Padre nel Cielo che ci ama infinitamente, e sa tutto di noi. “Niente è più decisivo in una vita delle proprie origini. Per questo il padre rappresenta molto di più di un uomo in carne e ossa che ci ha generati. Ci dà un nome.[...] La nostra individualità, così concreta, è legata al nome che riceviamo da nostro padre, per noi sigillo, segno distintivo. Prima che esseri di ragione o di coscienza, d’istinto o di passione, siamo infatti figli" (Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima).

Alla nostra origine vi è il perdono che ha cancellato il peccato d'origine. Siamo figli della misericordia, e questo è il nome che ci distingue, il nome stesso di Dio sigillato in noi, sorgente inesauribile della nostalgia di Lui. Perchè Dio è Padre soprattutto perdonando. Basta alzare gli occhi del cuore e sussurrare "Papà", il perdono è lì. Come ha sperimentato il figliol prodigo che s'era preparato un bel discorso, parole da dire, parole per spiegare, parole per implorare. E il Padre, già da tempo alla finestra, aspetta suo figlio con il cuore traboccante di compassione, sapendo già ciò di cui il figlio aveva bisogno, il suo perdono gratuito e rigenerante. Il Padre che gli corre incontro, lo accoglie in un abbraccio e gli permette una sola parola: "Padre". L'abbraccio spegne ogni altra parola. Padre, che declina perdono, per ciascun figlio.

"Amare un essere è sperare da esso qualcosa di indefinibile, di imprecisabile, e, nello stesso tempo, è dargli, in certo modo, il modo di rispondere a tale aspettativa" (Gabriel Marcel). Attraverso la preghiera del Padre nostro Gesù ci insegna ad offrire a Dio il modo di rispondere alle nostre aspettative più profonde. Più dell'aria che respiriamo abbiamo bisogno d'amore, di misericordia e di perdono. Nostro Padre attende uno sguardo per donarci quanto ci appartiene per natura, quella nuova conquistataci dal Figlio, l'eredità che spetta ai figli. Sì, la preghiera del Padre Nostro ci svela quale sia l'immensità della nostra elezione, i tesori di Grazia preparati per i figli di Dio. E' per noi la santità del nome di Dio, la vita celeste, divina che si incarna nella nostra vita terrena, povera, fragile: ogni istante ci è dato perchè in esso sia santificato il nome di Dio, perchè ogni aspetto della nostra vita sia strappato alla corruzione e rivestito di incorruttibilità, separato dal mondo pur essendo nel mondo. E' per noi il pane quotidiano imprescindibile per vivere, la croce ricolma dell'amore di Dio, il cibo della fede adulta, la storia trasformata in un altare dove donarsi per la salvezza del mondo; il cibo sconosciuto di cui si è nutrito il Signore, compiere l'opera del Padre suo, consegnarsi per amore senza difendere nulla, nella certezza che al di là della croce vi è il cuore di Dio, l'intimità eterna con Lui. E' nostra eredità il suo Regno che giunge tra noi, il suo potere su ogni demonio, sul peccato, sul regno del male; è per noi la dignità regale,  una nuova forma di pensare, di guardare, di studiare, di fidanzarsi, di sposarsi, di vivere la sessualità, il rapporto con il denaro e i beni di questo mondo, con la salute e la malattia: il Regno di DIo viene ad estendere il suo dominio sul giorno che ci attende oggi, perchè la nostra vita sia un frammento di Cielo, perchè passa la scena di questo mondo. Così è nostra eredità di figli il compiersi della volontà di Dio in noi, che fa della terra il Cielo: la casa, la famiglia, la scuola, il lavoro, l'ospedale, ogni angolo di questo mondo nel quale siamo chiamati a vivere trasfigurato nel compimento dell'originaria volontà del Padre, note di amore che compongono la sinfonia celeste anticipo della contemplazione eterna; è nostra parte di eredità la liberazione dalla tirannia del maligno; è nostra sorte deliziosa il perdono; è nostra proprietà la forza capace di abbattere la tentazione. 

Come i leviti siamo nati per non possedere nulla in questo mondo, per vivere nella precarietà totale che spinge ad alzare lo sguardo e chiedere a nostro Padre la nostra eredità, la vita celeste, l'intimità con Lui, il suo Figlio: è Lui la nostra eredità, la parte che ci è riservata; è Cristo nascosto in ciascuna domanda del Padre Nostro, il Figlio nel quale si compie ogni pensiero del Padre. Quando preghiamo non sprechiamo parole solo quando imploriamo di vivere con Gesù, di essere in Lui, per Lui, con Lui. E' vera e autentica solo la preghiera che bussa al cuore di Dio, di un Padre con le viscere di madre. Abbà, papà era l’invocazione con la quale i piccoli bambini ebrei si rivolgevano al loro padre, come ricorda il Talmud: "quando un bambino gusta il sapore del grano (cioè, quando comincia a farfugliare le prime parole), impara a dire Abbà e imma, (mamma)". Papà, si compia in me il tuo volere, è la preghiera del Figlio nel Giardino dell'angoscia, l'obbedienza fatta amore confidente. Il Padre nostro ci conduce nella stessa obbedienza del Figlio, la consegna di tutto noi stessi alla Verità che ci fa liberi. "Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis (1 Pt. 1,22). L'obbedienza alla verità dovrebbe "castificare" la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione" (Benedetto XVI, omelia nella messa con i membri della Commissione Teologica Internazionale, 6 aprile 2006). Il Padre Nostro è la preghiera che ci fa casti nel cuore, nella mente e nella carne, per vivere rettamente, quali figli di Dio che rimangono sempre nella casa di loro Padre, liberi nel suo amore.



Benedetto XVI: Lo Spirito e l’ "abbà" dei credenti (cfr Gal 4,6-7; Rm 8,14-17)
  



Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho mostrato come san Paolo dice che lo Spirito Santo è il grande maestro della preghiera e ci insegna a rivolgerci a Dio con i termini affettuosi dei figli, chiamandolo «Abbà, Padre».
Così ha fatto Gesù; anche nel momento più drammatico della sua vita terrena, Egli non ha mai perso la fiducia nel Padre e lo ha sempre invocato con l’intimità del Figlio amato. Al Getsemani, quando sente l’angoscia della morte, la sua preghiera è: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).
Sin dai primi passi del suo cammino, la Chiesa ha accolto questa invocazione e l’ha fatta propria, soprattutto nella preghiera del Padre nostro, in cui diciamo quotidianamente: «Padre… sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,9-10). Nelle Lettere di san Paolo la ritroviamo due volte. L’Apostolo, lo abbiamo sentito ora, si rivolge ai Galati con queste parole: «E che voi siete figli lo prova che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida in noi: Abbà! Padre!» (Gal 4,6). E al centro di quel canto allo Spirito che è il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, san Paolo afferma: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!"» (Rm 8,15).
Il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell'amore al Padre che ci ama. Queste due dense affermazioni ci parlano dell’invio e dell’accoglienza dello Spirito Santo, il dono del Risorto, che ci rende figli in Cristo, il Figlio Unigenito, e ci colloca in una relazione filiale con Dio, relazione di profonda fiducia, come quella dei bambini; una relazione filiale analoga a quella di Gesù, anche se diversa è l’origine e diverso è lo spessore: Gesù è il Figlio eterno di Dio che si è fatto carne, noi invece diventiamo figli in Lui, nel tempo, mediante la fede e i Sacramenti del Battesimo e della Cresima; grazie a questi due sacramenti siamo immersi nel Mistero pasquale di Cristo.
Lo Spirito Santo è il dono prezioso e necessario che ci rende figli di Dio, che realizza quella adozione filiale a cui sono chiamati tutti gli esseri umani perché, come precisa la benedizione divina della Lettera agli Efesini, Dio, in Cristo, «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4).
Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola «padre» con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana.
L'assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi. Da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, possiamo imparare che cosa significhi propriamente «padre», quale sia la vera natura del Padre che è nei cieli.
Critici della religione hanno detto che parlare del «Padre», di Dio, sarebbe una proiezione dei nostri padri al cielo. Ma è vero il contrario: nel Vangelo, Cristo ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità. Pensiamo alla parola di Gesù nel sermone della montagna dove dice: «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45). È proprio l’amore di Gesù, il Figlio Unigenito - che giunge al dono di se stesso sulla croce - che ci rivela la vera natura del Padre: Egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore, amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’uomo vecchio.
Vorrei fermarmi un momento sulla paternità di Dio, perché possiamo lasciarci scaldare il cuore da questa profonda realtà che Gesù ci ha fatto conoscere pienamente e perché ne sia nutrita la nostra preghiera. Potremmo quindi dire che in Dio l’essere Padre ha due dimensioni. Anzitutto, Dio è nostro Padre, perché è nostro Creatore. Ognuno di noi, ogni uomo e ogni donna è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui. Quando nel Libro della Genesi si dice che l’essere umano è creato a immagine di Dio (cfr 1,27), si vuole esprimere proprio questa realtà: Dio è il nostro padre, per Lui non siamo esseri anonimi, impersonali, ma abbiamo un nome. E una parola nei Salmi mi tocca sempre quando la prego: «Le tue mani mi hanno plasmato», dice il salmista (Sal 119,73).
Ognuno di noi può dire, in questa bella immagine, la relazione personale con Dio: «Le tue mani mi hanno plasmato. Tu mi hai pensato e creato e voluto». Ma questo non basta ancora. Lo Spirito di Cristo ci apre ad una seconda dimensione della paternità di Dio, oltre la creazione, poiché Gesù è il «Figlio» in senso pieno, «della stessa sostanza del Padre», come professiamo nel Credo. Diventando un essere umano come noi, con l’Incarnazione, la Morte e la Risurrezione, Gesù a sua volta ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio. Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita. E’ questa realtà fondamentale che ci viene dischiusa quando ci apriamo allo Spirito Santo ed Egli ci fa rivolgere a Dio dicendogli «Abbà!», Padre! Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova.
Ma vorrei adesso ritornare ai due brani di san Paolo che stiamo considerando circa questa azione dello Spirito Santo nella nostra preghiera; anche qui sono due passi che si corrispondono, ma contengono una diversa sfumatura. Nella Lettera ai Galati, infatti, l’Apostolo afferma che lo Spirito grida in noi «Abbà! Padre!»; nella Lettera ai Romani dice che siamo noi a gridare «Abbà! Padre!». E San Paolo vuole farci comprendere che la preghiera cristiana non è mai, non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è solo un «agire nostro», ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce per primo: è lo Spirito Santo che grida in noi, e noi possiamo gridare perché l'impulso viene dallo Spirito Santo. Noi non potremmo pregare se non fosse iscritto nella profondità del nostro cuore il desiderio di Dio, l'essere figli di Dio. Da quando esiste, l'homo sapiens è sempre in ricerca di Dio, cerca di parlare con Dio, perché Dio ha iscritto se stesso nei nostri cuori. Quindi la prima iniziativa viene da Dio, e con il Battesimo, di nuovo Dio agisce in noi, lo Spirito Santo agisce in noi; è il primo iniziatore della preghiera perché possiamo poi realmente parlare con Dio e dire "Abbà" a Dio. Quindi la sua presenza apre la nostra preghiera e la nostra vita, apre agli orizzonti della Trinità e della Chiesa.
Inoltre comprendiamo, questo è il secondo punto, che la preghiera dello Spirito di Cristo in noi e la nostra in Lui, non è solo un atto individuale, ma un atto dell’intera Chiesa. Nel pregare si apre il nostro cuore, entriamo in comunione non solo con Dio, ma proprio con tutti i figli di Dio, perché siamo una cosa sola. Quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli. Chi parla con Dio non è solo. Siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio; certo i musicisti e gli strumenti sono diversi - e questo è un elemento di ricchezza -, ma la melodia di lode è unica e in armonia. Ogni volta, allora, che gridiamo e diciamo: «Abbà! Padre!» è la Chiesa, tutta la comunione degli uomini in preghiera che sostiene la nostra invocazione e la nostra invocazione è invocazione della Chiesa. Questo si riflette anche nella ricchezza dei carismi, dei ministeri, dei compiti, che svolgiamo nella comunità. San Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «Ci sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; ci sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; ci sono diverse attività, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). La preghiera guidata dallo Spirito Santo, che ci fa dire «Abbà! Padre!» con Cristo e in Cristo, ci inserisce nell’unico grande mosaico della famiglia di Dio in cui ognuno ha un posto e un ruolo importante, in profonda unità con il tutto.
Un’ultima annotazione: noi impariamo a gridare «Abba!, Padre!» anche con Maria, la Madre del Figlio di Dio. Il compimento della pienezza del tempo, del quale parla san Paolo nella Lettera ai Galati (cfr 4,4), avviene al momento del «sì» di Maria, della sua adesione piena alla volontà di Dio: «ecco, sono la serva del Signore» (Lc 1,38).
Cari fratelli e sorelle, impariamo a gustare nella nostra preghiera la bellezza di essere amici, anzi figli di Dio, di poterlo invocare con la confidenza e la fiducia che ha un bambino verso i genitori che lo amano. Apriamo la nostra preghiera all’azione dello Spirito Santo perché in noi gridi a Dio «Abbà! Padre!» e perché la nostra preghiera cambi, converta costantemente il nostro pensare, il nostro agire per renderlo sempre più conforme a quello del Figlio Unigenito, Gesù Cristo. Grazie.

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