VI Domenica del Tempo Ordinario. Anno B





Dal Vangelo secondo Marco 1,40-45. 
In quel tempo, venne a Gesù un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». 
Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». 
Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. 
E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: 
«Guarda di non dir niente a nessuno, ma và, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». 
Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte. 



Ricreati in Cristo diventeremo un Vangelo vivente


Parole, guarigioni ed esorcismi avevano esteso la fama di Gesù "al punto non poteva più entrare pubblicamente in una città". La fama che sgorgava dalla sua compassione. Questa parola traduce in italiano il greco splanxnisthèis (avente viscere che fremono) che traduce a sua volta l'ebraico rahamin, che rimanda all'amore viscerale di una madre (rehem = utero, seno materno). 


La compassione svela dunque il cuore materno di Gesù, da cui scaturisce un amore capace di accogliere, concepire e generare, dare alla luce, creare e ricreare: la compassione che ha abbracciato il lebbroso.  
Reietto, impuro e impossibilitato ad avvicinarsi a chiunque, aveva molto camminato nelle umiliazioni, nei fallimenti e nel dolore. Non aveva nessuno, e quando non si ha nessuno ci si aggrappa all’unico ricordo che non tradisce mai, quello della propria madre. Anche quando si muore sale prepotente sulle labbra la parola “mamma”, perché la morte è molto simile alla nascita. 
Per questo la sofferenza spinge, fosse pure inconsapevolmente, verso la propria origine, dove la carne e il cuore si sono sentiti accolti, nutriti, amati. Verso il grembo dove nascevano, intatte, le speranze, e tutto poteva ancora essere. 
Il dolore fisico e spirituale, che in un lebbroso sono così uniti, è attratto da ciò che potrebbe innescare una rigenerazione nella purezza perduta. Perché, misteriosamente, Cristo attrae tutti nel suo passaggio vittorioso attraverso la morte, per trasformare ogni dolore in una nuova nascita.  
In qualche modo, dunque, la “fama” di Gesù era per il lebbroso il segno che in quell'Uomo che stava passando vicino a lui si celava un cuore di madre, e per questo poteva infrangere le regole che lo volevano segregato.  
In un momento s’era di nuovo accesa la speranza bambina, innocente e audace. E sgorgava proprio dal suo dolore e dalla sua solitudine, che avevano plasmato in lui un cuore umile, capace di riconoscere il bisogno di rientrare nelle viscere di sua madre per rinascere, l’unico che muove le gambe per mettersi in cammino verso Cristo. 
Per incontrarlo, infatti, il lebbroso ha dovuto percorrere un catecumenato nel quale a poco a poco uscire dall’isolamento e avvicinarsi all'“accampamento”. Quanto cammino, e che umiliazioni per uscire da se stesso, dal suo passato di schiavitù. Non poteva dissimulare chi fosse, doveva “portare vesti strappate e il capo scoperto”, e ad ogni passo gridare “immondo, immondo”. 
Sì, senza la consapevolezza della propria realtà non si arriva a Cristo. E’ necessario accettare di essere peccatori, perché al posto di quel “immondo, immondo” si possa gridare “purificato, perdonato, rinato”. Ogni incontro autentico con Gesù si realizza in virtù di un cammino in discesa per immergersi nella sua compassione, che per noi sono le viscere di misericordia della Chiesa, ovvero il fonte battesimale e ogni sacramento che rinnova in noi la Grazia.  
Solo l’umiltà, infatti, ci schiude gli occhi nella fede, per riconoscere in Gesù il volto di Dio. Come il lebbroso che era “venuto a Lui”, e sapeva di potersi fidare, perché proprio in Lui era stato creato; la pelle straziata, le membra squassate, non potevano cancellare la verità: non era nato per sparire nella malattia, come nessuno è nato per morire nei peccati! 
Lui lo sapeva, qualcosa glielo diceva interiormente, Gesù lo aveva destato a questa certezza: assomigliava a Lui, perché Gesù si era fatto simile a lui. Sulla via del Calvario e sulla Croce avrebbe infatti perso le apparenze di un uomo, disprezzato, rifiuto degli uomini, diventando come uno davanti al quale ci si copre il volto (Cfr. Is. 53).  
Per questo, nella fede, il lebbroso aveva visto Gesù come un altro se stesso. Non aveva dubbi, si trovava dinanzi all'uomo dei dolori, che conosce bene il patire, il suo. Così è sgorgata dal suo cuore l'invocazione come una sincera professione di fede: "Se vuoi puoi guarirmi". 
Mi hai amato, pensato e creato Tu, sono tuo, se vuoi puoi ancora avere misericordia; tu conosci le mie sofferenze, come solo una madre può conoscere. Sono carne della tua carne, e Tu hai il potere di distruggere la morte. Ti prego, distruggila ora in me, tu puoi, se vuoi. 
E qui le viscere di Gesù si commuovono, come per un figlio, per un fratello amato più di se stesso, spingendo le sue mani per toccare quelle carni straziate e guarirle.   
Nell’incontro con Cristo, il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo, tutto quanto era stato interdetto al lebbroso secondo la Legge, era di nuovo lì per lui, incarnato in Gesù. Poteva rientrare nella comunione, nella lode, nella vita piena, secondo la vocazione del suo popolo. Perché la vera sofferenza è vivere in contrasto con la propria vocazione, che per il lebbroso era far presente, insieme al suo popolo, l'amore di Dio sulla terra. 
Gesù era la porta che lo faceva rientrare nella volontà di Dio, spalancata nella misericordia. Attraverso Cristo poteva di nuovo “fare tutto per la gloria di Dio, sia che mangiasse, sia che bevesse, sia che facesse qualsiasi altra cosa”. Era guarito, non viveva più per se stesso, isolato a causa dei suoi peccati. 
Ecco, proprio dal frutto del miracolo di Gesù, comprendiamo quanto abbiamo bisogno di Lui. Noi che, chiamati nella Chiesa per vivere ogni istante una liturgia di lode che testimoni la presenza amorevole di Dio, viviamo invece per saziare la nostra carne, e ci ritroviamo soli come i lebbrosi. Noi peccatori esclusi dalla comunione, in questa Domenica siamo chiamati a metterci in cammino, per inginocchiarsi dinanzi alla compassione di Gesù. 
Coraggio, abbandoniamoci al suo amore che crea in noi un cuore puro dal quale il suo sangue può irrorare di vita nuova le nostre membra e guarirle. Sì, la nostra carne può guarire ed essere messa a servizio della Gloria di Dio! I sacerdoti e la Chiesa intera sono accanto a noi per accoglierci di nuovo nella comunione del Popolo santo, e certificare dinanzi al mondo e per il mondo che Cristo è risorto e anche oggi ha potere su ogni peccato. Perché "la Gloria di Dio è l'uomo vivente" (S. Ireneo).
Chi è stato perdonato e rigenerato non può nascondere l'opera di Dio. Risplende nei suoi gesti, nelle sue parole, nei suoi sguardi. Così, come accadde a Cristo, così anche a noi la “compassione” giocherà un bello scherzetto. Ci getterà nella mischia, nella grande arena dell’evangelizzazione. Ricreati in Lui, infatti, diventeremo come il lebbroso un Vangelo vivente. Non potremo più nasconderci, perché quello che prima ci separava dagli altri nell’egoismo, sarà trasformato in lampada e segno della Grazia per tutti. 
Perché quando Gesù guarisce qualcuno è sempre per guarirne moltissimi altri attraverso di lui. Coraggio allora, ci aspetta un lungo cammino di conversione, perché la messe di lebbrosi da mietere nella misericordia è davvero grande.

  

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