Sacratissimo Cuore di Gesù. Anno A




αποφθεγμα Apoftegma

Ti supplico, 
che la mitezza della tua carità ridia coraggio al mio cuore. 
Per grazia, le viscere della tua misericordia 
si commuovano in mio favore, 
perché purtroppo, numerosi sono i miei demeriti, 
nulli i miei meriti.
E donami, o caro Gesù, di amare te solo, 
in ogni cosa e al di sopra di tutto, 
di attaccarmi a te con fervore, 
di sperare in te, 
e di non mettere alla mia speranza nessun limite.

Santa Geltrude di Elfta 



Cosa ti farebbe gioire così tanto da esultare? Pensaci un momento e rispondi. E il mondo? I colleghi, gli amici, i vip e gli opinionisti così "intelligenti"? E gli intellettuali così "sapienti"? C'è qualcosa che li farebbe scomodare dalla loro pura seriosità e farli gridare di gioia? Ora vediamo invece per chi si rallegra Dio: il Padre e il Figlio esultano per ciò che di sicuro neanche hai pensato; sì, la ragione della loro esultanza sono quelli che noi e il mondo non degniamo di nessuna attenzione, perché nulla fanno per attirarla: sono troppo "piccoli" per gli uomini che si credono molto grandi, che si aspettano grandi eventi, grandi cambiamenti, grandi consolazioni. Invece il Padre, infinitamente più grande della sua creatura più grande, si avventura in un testacoda incredibile e plana dove l'occhio superbo proprio non può cadere... "Sì, perché a Lui è piaciuto così", ha scelto cioè gli "infanti", i "piccoli" secondo la Vulgata, coloro che non hanno ancora l'uso della parola, i"fanciulli", i "lattanti", per "rivelare le sue cose". Capito? Il Padre rivela il suo cuore a chi ancora non sa parlare, e il Figlio "esulta nello Spirito Santo". Vallo a capire Dio... Impossibile per chi ha un altro padre a cui cerca di assomigliare e spera la gioia dal compimento dei suoi desideri, carnali, effimeri, indigesti, quasi sempre mortali. Ascolta le sue parole che lo adulano, e ne fa un idolo da adorare e imitare. E' così, vero? Ascoltiamo le parole avvelenate del serpente, le accogliamo nel cuore, e cominciamo a ripeterle declinandole in ogni situazione che viviamo. E chiacchieriamo, per giustificare, per legare, per sciogliere, per ingannare, per sedurre, per vincere, per vendicare, per uccidere. La Scrittura mette in guardia dal troppo e dal vano parlare: "Le parole della bocca dell'uomo sono acqua profonda... con la bocca l'uomo sazia il suo stomaco, egli si sazia con il prodotto delle sue labbra. Morte e vita sono in potere della lingua, e chi l'accarezza ne mangerà i frutti" (Pr. 18, 4. 20-21). Ecco, ci illudiamo di saziarci con le nostre parole perché abbiamo creduto che le parole del demonio ci avrebbero fatto diventare come Dio, e sai che esultanza. Per questo c'è come un'ingordigia nelle nostre parole, le accarezziamo credendo di trovarne beneficio, mentre, proprio come dopo aver accolto quelle del serpente, ne sperimentiamo i frutti avvelenati: divisioni, liti, invidie, passioni. Per questo siamo sempre più stanchi, "affaticati e oppressi". Come stai? Nove su dieci rispondono: stanchissimo guarda, non ti dico quante cose ho dovuto fare. E poi, sempre in tiro, guai ad abbassare la guardia, chi agnello si fa il lupo se lo mangia... E poi quella stanchezza per gli sforzi e i tentativi di obbedire alle leggi e ai moralismi che lo Stato e la società ci impongono per essere accettati, o quelli più subdoli della religione che ci siamo inventati, e i peggiori, quelli che noi stessi ci carichiamo sulle spalle. Fardelli insopportabili, che infatti ci schiacciano e ci fanno esplodere come quando buchi un palloncino: una deflagrazione di peccati che si abbatte su chi ci è intorno, dai quali esigiamo senza pietà ciò che noi non siamo stati capaci di compiere. E ancora più stanchi, perché ciò che "opprime e affatica" il cuore sono soprattutto i peccati. 

Invece le parole di Dio sono preparate per chi non ha parole. E se fossero, oggi, per noi? Se accettassimo di essere davvero "affaticati e oppressi" perché peccatori, ci ritroveremo, finalmente, senza parole. "Infanti", cioè senza favella. Allora sì che questa Solennità ci verrebbe incontro come un unguento a lenire le nostra membra ferite e stanche per tanto "andare e venire" senza frutto. Il "Sacratissimo Cuore di Gesù" si schiuderebbe davanti al nostro "cuore corrottissimo", indurito nell'orgoglio e nell'incredulità, tempestato di aritmie perché incapace di battere per amare. Accetti di avere un cuore da buttare? Accetti di aver un'urgentissimo bisogno di trapianto? Sì? Fantastico! Significa che la storia ti ha fatto scoprire di essere "piccolo" mostrando inutili le tue parole; e "povero", "tapino", secondo l'originale greco del termine "umile". Significa che la Parola di Dio ti ha illuminato e le cure materne della Chiesa ti hanno condotto alla verità, aprendo i tuoi occhi sulla "terra" di cui sei fatto, secca e arida perché hai cacciato da tempo lo Spirito Santo che le dà la vita. Sei nell'humus, stai sfiorando l'umiltà, l'unica via per entrare nel "riposo" e nel "ristoro" autentici. Perché tu, esattamente come sei oggi, "affaticato e oppresso", sei la "terra" dove Cristo è disceso per farvisi seppellire. Per Lui, infatti, non c'è nessuno più importante di te. Tu sei il "tutto" che "il Padre ha dato al Figlio". E oggi viene a prenderselo, perché non c'è gioia più grande in Cielo che per un peccatore che si converte. "Un" peccatore, tu. Ma perché Gesù possa "esultare nello Spirito Santo" per te come il Buon Pastore dinanzi alla sua pecora che s'era perduta, come il "Padre" abbracciando il suo figlio che era morto, è necessario che anche tu "conosca il Padre": è questa infatti la sua gioia, che un "tapino" come te "conosca" suo Padre, perché, come diceva Filippo, "questo ci basta". Ma "nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare", cioè a te. Per esserti accanto oggi e "rivelarti" nel suo volto il tuo Padre, pur essendo Figlio, ha "imparato" l'obbedienza dalle cose che patì. "Mite" come un agnellino condotto al macello, si è "umiliato" per entrare nella tua "umiltà", nella tua realtà più dura e arida. Ascolta allora questa Parola, è Lui che nella Chiesa ti sta parlando dicendoti "vieni a me". Puoi uscire da te stesso, perché nella sua chiamata vi è il potere di compiere quello che dice. Vai a Lui che ti chiama per "insegnarti" il "riposo e il ristoro", immagini della vita celeste preparata per noi che il cuore che "ha imparato da Lui" può pregustare. Il termine "imparare" adottato da Gesù, infatti, rimanda al rapporto tra "Didaskalo" e "discepolo", tra il Maestro e l'allievo. "Imparare", dunque, è la coniugazione di un'intimità che si realizza pienamente solo dove il Signore ci "rivela" il Padre amandoci "sino alla fine", cioè sulla Croce, il "suo giogo" preparato per noi ogni giorno. Su di essa, infatti, "ha preso su di sé" ogni nostro peccato, angoscia e dolore, unendosi così a noi indissolubilmente; e con noi è sceso nella "terra" che ci ha sepolto, e da lì ci ha fatti risuscitare con Lui per portarci al "riposo" e al "ristoro" del Paradiso. Per questo la Croce è l'unico "giogo soave", l'unico "carico leggero", cioè l'unico adatto a noi, perché Gesù Cristo è l'unico che si è adeguato a noi, "facendosi peccato perché i peccati non ci allontanassero da Lui" (Ode VII di Salomone). "Imparare da Lui" significa dunque lasciarsi legare nella sua intimità "prendendo su di noi" la nostra Croce che Gesù ha fatto il "suo giogo". Il "carico" di ogni giorno, proprio quello che la carne rifiuta come l'assurdo più lontano dal "riposo" e dalla gioia, è sulle sue spalle; e oggi viene a chiamarci proprio nell'ostinazione con cui abbiamo sempre rifiutato di portare la Croce per dirci di non aver paura ad entrare con Lui nei fatti e nelle relazioni che ci spaventano. In essi "impareremo" la "mitezza", perché proprio la moglie o il marito, la malattia o qualunque sofferenza, ci "ammansiscono", "domano" il puledro selvaggio che è la nostra carne; "impareremo" da Gesù l'"umiltà" che ci fa riposare nella realtà, anche se dolorosa, e la "mitezza" di fronte ai fatti e alle persone, per accogliere la volontà di Dio senza esigere nulla. Benedetta la nostra storia, benedetta la Croce che Dio vi ha piantato: su di essa si schiude il "cuore" di Cristo per accoglierci nel suo amore e "rivelarci il Padre", l'unico "ristoro" a cui anela la nostra "anima".   



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L'ANNUNCIO
Mt 11, 25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.
Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». 
Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».







Le parole oranti del Signore che si rivolgono al Padre in un'estatica benedizione ci schiudono oggi una finestra sui sentimenti più intimi di Dio. Possiamo avventurarci nel cuore del Padre e conoscere quello di cui si compiace. La relazione di profonda comunione tra Padre e Figlio, la conoscenza reciproca che è, secondo il linguaggio della Scrittura, un'unione profonda e indissolubile. Il Padre e il Figlio uniti nell'esultanza e nella gioia di fronte al Mistero rivelato ai "piccoli", gli "infanti" secondo la traduzione in latino della Vulgata, etimologicamente coloro che non hanno ancora l'uso della parola, i"fanciulli", i "bambini", i "lattanti". Dio rivela il Suo cuore a chi ancora non sa parlare. Le sue sono le parole per chi non ha parole. E invece noi siamo imbottiti di parole, spesso vuote, buttate alla rinfusa per cercare di razionalizzare pensieri irrazionali. Ma non abbiamo posto per le parole di Dio. La sapienza e l'intelligenza mondane, figlie del principe di questo mondo, affogano il nostro cuore e strozzano la nostra mente. Siamo impermeabili alla Parola fatta carne. Ci crediamo adulti perché presumiamo di condurre le nostre esistenze attraverso le parole. Chiacchiere, per giustificare, per legare, per sciogliere, per ingannare, per sedurre, per vincere, per vendicare, per uccidere. La Scrittura mette in guardia dal troppo e dal vano parlare: "Le parole della bocca dell'uomo sono acqua profonda... con la bocca l'uomo sazia il suo stomaco, egli si sazia con il prodotto delle sue labbra. Morte e vita sono in potere della lingua, e chi l'accarezza ne mangerà i frutti" (Pr. 18, 4. 20-21). C'è come un'ingordigia nelle nostre parole, non ce diamo conto, le accarezziamo credendo di trovarne beneficio, per gustarne invece gli amari frutti: divisioni, liti, invidie, passioni. Un laccio è la nostra lingua e ci tiene imprigionati. E' questa una delle radici più profonde della nostra infelicità, siamo schiavi delle nostre parole. 

Siamo stanchi dei nostri sforzi, dei tentativi, delle sfide, oppressi da leggi e moralismi. Non ce la facciamo più. Schiavi di speranze infrante, di rincorse a perdifiato sui sentieri dei compromessi, per acciuffare un sorriso, uno sguardo di benevolenza, sperando di rifiatare nell'affetto di chi ci è accanto. E nulla, qualche aperitivo che ci è parso preludere al banchetto agognato, al riposo sperato, e d'un colpo, invece di una tavola imbandita, ci siamo ritrovati soli di nuovo, nel mezzo di una strada da percorrere ancora, senza forze, con una delusione in più sulle spalle. Un figlio, per quanto santo e giusto, è forse il ristoro? Una figlia che si sposa con l'uomo ideale, cristiano, di sani valori, con la testa sulle spalle, è forse il riposo? La moglie, il marito, al chiudersi della giornata, sono forse il porto sospirato? Unirsi, quando è concesso, è forse il capolinea di tanta fatica? Non ci si ritrova poi, comunque, soli? Carne della propria carne, è vero, ma è pur sempre qualcosa di parziale, incompleto, che rimanda a un di più, a qualcosa che superi le barriere del tempo e dello spazio. E una buona semina del Vangelo, i miracoli nei cristiani affidati, le vite ricostruite, il potere di Cristo operante nei fratelli, è questo il riposo per il quale siamo venuti al mondo, per cui siamo preti, apostoli, missionari? Non si tratta ora di quando si fa di tutto ciò un assoluto, porta spalancata sulle più cocenti delusioni. Si tratta piuttosto di quel desiderio di pace e riposo che cerchiamo, semplicemente, proprio nel Signore e nelle sue cose, dove più subdolo si può annidare l'inganno del demonio. La parvenza di rettitudine nasconde la perversione di voler fare della terra il Cielo, della carne il Paradiso. Comunismo, rivoluzioni, lotta alle ingiustizie, non sono aspetti lontani da noi. Basta scrutare il nostro cuore e cercare l'atteggiamento che abbiamo di fronte alle crisi economiche, ai provvedimenti del Governo, ai fatti di cronaca. E comprendere come, al di là di ogni pretesa rettitudine, il nostro cuore è attaccato al denaro, alla carne, al mondo. E a tutto ciò chiediamo la vita, il riposo e il ristoro. Come a una vacanza, a una settimana bianca, a quello staccare per un po' la spina grazie al quale ci illudiamo di rigenerarci... Mentre la storia scorre, e i personaggi e gli eventi non riposano mai. Possiamo fare delle cose più sante un giocattolo di Lego da costruire per rifugiarci al riparo della precarietà, materiale e spirituale. Una croce d'oro esibita sul petto che scaccia perversamente la Croce autentica che ci inchioda alla volontà di Dio. La sicurezza religiosa che butta fuori la precarietà nella quale, sola, si può davvero sperimentare l'opera di Dio, la sua prossimità, il suo amore. E' al centro della propria umiltà, della verità, che è l'unica nella quale il Dio vero è presente e operante. La verità che è la nostra totale precarietà. La storia ci ha fatti piccoli, poveri, "tapini", ultimi, secondo l'accezione del termine "umile" che compare nel Vangelo di oggi. Nella terra, nell'humus dove ci troviamo, possiamo raggiungere, o meglio, possiamo essere accolti nel riposo vero, perché è esattamente il luogo dove Cristo è disceso. Il Signore s'è abbassato sino a noi, umiliato nella morte, mite come un agnellino condotto al macello. Lui s'è offerto volontariamente laddove noi dobbiamo andare senza nessuna voglia. Mite dove noi recalcitriamo. E Lui stesso, pur essendo Figlio, ha "imparato" l'obbedienza dalle cose che patì.

E anche oggi il Signore ci chiama. Affaticati e oppressi, ci cerca per insegnarci la mitezza e l'umiltà che sgorgano dal suo cuore. Ascoltare e andare: è questa la volontà di Dio per noi. Andare e fermarsi presso di Lui, per vedere con gli occhi del cuore dove Lui abita; e stare con Lui, alla scuola della sua vita per imparare a vivere. Si tratta di lasciare che la sua Parola penetri sino al fondo di noi stessi, per farsi carne del cuore e pensiero della mente, parole sulle labbra e gesti nelle membra, giorno per giorno, situazione dopo situazione. Tenere l'orecchio aperto come un discepolo, nell'unico atteggiamento che si addice a chi, dopo tanti sforzi vani e frustranti, si è scoperto piccolo, senza parole per rispondere alle grandi e alle piccole questioni della vita. Stare ai suoi piedi, cercando e desiderando, negli eventi che feriscono il matrimonio, che ci svelano inermi di fronte alla vita e alle debolezze dei figli, che ci umiliano sul lavoro, in ogni circostanza l'unica cosa buona e necessaria, la sua Parola, la sua vita, il suo amore. In questo atteggiamento del cuore, e solo in esso, troveremo ristoro, riposo per il nostro intimo, per le nostre anime. Attraverso la storia di ogni giorno il Signore ci chiama ad entrare nel suo riposo, nello shabbat preparato per noi, e nasconderci nella fenditura della roccia, nel suo cuore squarciato dalla lama malvagia dei nostri peccati, nel "tutto" del Padre consegnato al Figlio, la sua misericordia infinita. Se oggi ascoltiamo la sua voce non induriamo il nostro cuore, ma lasciamoci sedurre dalla sua misericordia, per accogliere con docilità la sua Parola che viene a farsi carne crocifissa nella nostra carne.


Andare al Signore è già imparare ad essere miti e umili di cuore. "Mite" è "colui che è stato domato", che ha "imparato" ad obbedire. Etimologicamente la mansuetudine, o la mitezza, è la caratteristica dell'animale ammansito perché sia docile nel sottoporsi al giogo. Siamo stati creati per imparare da Lui l'autentica umanità, attraverso il suo giogo soave che rende soave la carne, per natura così simile a quella di un animale selvatico. Per questo, proprio la Croce è l'unica scuola adattaa noi; ciò che ci sembra assurdo e inaccettabile nella nostra vita è l'unico giogo adeguato alla nostra carne indomabile. Tutto il resto, i nostri e gli altrui pensieri, i criteri e i regolamenti, ci schiacciano rendendoci ogni volta più orgogliosi. Andare al Signore significa dunque lasciarsi abbracciare dal suo giogo, e stare crocifissi con Cristo. "Imparate da me" dice il Signore. Il termine adottato rimanda a un rapporto e a una relazione profonde, ben al di là di una conoscenza superficiale: a quella tra Didaskalo e Discepolo, tra il Maestro e l'allievo. "Imparare", dunque, è la coniugazione di un'intimità che si realizza pienamente solo dove il Signore si consegna amandoci "sino alla fine", sulla sua Croce gloriosa. Così potremo "conoscere" Lui perché Lui si è voluto "rivelare" a noi, non con una speculazione filosofica, con libri e spot pubblicitari, ma con la Parola annunciata dalla Chiesa, la predicazione di Cristo e Cristo crocifisso, incarnato nei suoi apostoli e martiri. "Venite a me" significa allora ascoltare e così accogliere il suo giogo come una Buona Notizia; aprire il cuore e lasciarsi amare da Gesù, per diventare miti e umili di fronte a persone e fatti della storiaIl mite, infatti, "possiede la terra", vive nel mondo una porzione di Cielo, perché dalla Croce, ben piantata nel suolo ma puntata verso l'alto, abbraccia uomini ed eventi nell'amore che discerne e "conosce" il Padre che in essi si "rivela" guidando la storia con la sua volontà provvidente; come Mosè, il mite conosce la propria debolezza, non se ne scandalizza, e si lascia condurre. E' mite chi ha imparato che la lotta d'ogni giorno non è contro le creature di carne, contro suocere o mariti o mogli o figli o colleghi di lavoro o coinquilini di condominio. Sa che la lotta, invece, è contro il demonio, il padre della menzogna e dell'orgoglio, e desidera imparare come le uniche armi vittoriose su di lui sono l'umiltà e la mitezza, seguendo le orme di Cristo lasciate per noi laddove Lui stesso ha imparato, la via del Calvario. La Croce è l'unico giogo che non pesa, l'unico carico leggero, l'unico adatto a noi, perché Gesù Cristo è l'unico che si è adeguato a noi, "facendosi peccato perché i peccati non ci allontanassero da Lui" (Ode VII di Salomone). Carne, mondo, desideri, progetti, leggi, tutto è per noi troppo pesante, inadeguato. Tutto troppo terreno. Siamo fatti per Dio, siamo suoi. Per questo non v'è altro giogo perfetto per noi se non il giogo di Cristo. La Croce, dove siamo figli nel Figlio nel compiere la volontà dello stesso Padre, l'unica pace, il vero riposo. Le nostre braccia distese con le sue, per la moglie, il marito, i figli, per ogni uomo. Oggi, nella semplicità delle ore che ci accolgono, negli incontri, nelle cose da fare e ripetere mille volte, si compie una liturgia d'amore. La nostra vita è il dono del Figlio al Padre. Siamo il tesoro di Dio, il frutto dell'intimità divina. Siamo chiamati per andare a Cristo: solo così potremo essere veramente noi stessi, laddove Lui è divenuto ciascuno di noi, per farci, in Lui, figli amatissimi. Istante dopo istante conformati alla sua immagine, e così accolti nel riposo che solo un cuore docile e obbediente può gustare, anche se nulla nella nostra vita riposa, né il male, né il dolore, né le avversità. Un riposo crocifisso, un ristoro nel mezzo della battaglia. Immersi con Cristo nella sua preghiera di lode e benedizione, che si compie ogni istante reclinando il capo sulla Croce, spirando vita per riaverla piena e compiuta. 

Contempliamo oggi il cuore di Dio, "l'uomo dei dolori", l'Agnello senza macchia. Contempliamo il suo amore per riconoscere i nostri peccati. Come Giobbe mettiamo la mano sulla bocca, impariamo il silenzio stupito dell'infante. E' tutto troppo più grande di noi. Non sappiamo. Non conosciamo. Non capiamo. Accettiamolo. Conosciamo Dio per sentito dire, impariamo allora a conoscerlo attraverso gli occhi di un cuore puro, piccolo, infante. Lasciamo che la vita e la storia che il Padre traccia per noi distrugga le sicurezze, gli schemi, i criteri. Lasciamo che la Croce che oggi ci accoglie sia il crogiolo dove bruciare quello che di noi appartiene alla carne a al mondo. Chiediamo con il Salmo che Dio metta una sentinella alla porta delle nostre labbra, che il suo Spirito ci difenda da inutili parole. Che Dio faccia oggi, e ogni giorno, il miracolo di ricrearci piccoli, infanti appena divezzati in braccio alla propria madre, abbandonati nelle viscere di misericordia del Padre. E lì, tra le sue braccia, tranquilli e sereni, senza aspirare a cose troppo alte e senza pretendere nulla, saziandoci delle sue Parole, miele dolcissimo, le uniche parole di vita.



APPROFONDIMENTI







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