Sabato della XVIII settimana del Tempo Ordinario



La nuova "generazione" di Cristo






αποφθεγμα Apoftegma


Quando è illuminata dalla fede, 
l'anima immagina Dio e lo contempla per quanto le è possibile. 
Abbraccia i limiti dell'universo e, prima della fine del tempo,  
vede già il giudizio ed il compimento delle promesse. 
Tu dunque, fa' in modo di possedere questa fede 
che dipende da Dio e ti porta verso di lui; 
allora riceverai da lui la fede che agisce al di là delle forze umane.

San Cirillo di Gerusalemme



Per comprendere e accogliere il brano evangelico di oggi occorre soffermarci sulla risposta di Gesù al padre del ragazzo "epilettico che soffre molto": "O generazione incredula e perversa!". Si tratta di un'espressione che troviamo nel cosiddetto Cantico di Mosè posto al termine del Deuteronomio (Dt 32). Vi invito a leggerlo tutto con calma (per esempio qui) perché vi aiuterà ad entrare nella profondità dell'episodio del Vangelo odierno; in sintesi vi leggiamo: "Egli è la Roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto. Prevaricano contro di lui: figli degeneri, per Lui sono solo corruzione, per la loro tara non sono più suoi figli, generazione tortuosa e perversa. Così tu ripaghi il Signore, popolo stolto e privo di saggezza? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c'era con lui alcun dio straniero. Lo hanno fatto ingelosire con dèi stranieri e provocato all'ira con abomini. Hanno sacrificato a dèmoni che non sono Dio, a dèi che non conoscevano, nuovi, venuti da poco, che i vostri padri non avevano temuto. La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato! Ma il Signore ha visto e ha disdegnato con ira i suoi figli e le sue figlie. Ha detto: «Io nasconderò loro il mio volto; vedrò quale sarà la loro fine. Sono una generazione perfida, sono figli infedeli. Un fuoco si è acceso nella mia collera e brucerà fino alla profondità degl'inferi. Sono un popolo insensato e in essi non c'è intelligenza: se fossero saggi, capirebbero, rifletterebbero sulla loro fine. Mia sarà la vendetta e il castigo, quando vacillerà il loro piede! Perché il Signore farà giustizia al suo popolo e dei suoi servi avrà compassione; quando vedrà che ogni forza è svanita e non è rimasto né schiavo né libero. Ora vedete che io, io lo sono e nessun altro è dio accanto a me. Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano". Alla luce di queste parole si comprende l'indignazione di Gesù: "O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi". Quale "generazione"? Quella che sorge dai "geni" dell'incredulità, i figli de-generi, che hanno cioè perduto la primo-genitura, l'elezione e la salvezza di Dio, e per questo non sono più suoi figli. La generazione insensata e senza intelligenza che ha creduto all'inganno del demonio e per questo è colpita "dal fuoco" della gelosia di Dio. L'uomo che si prostra dinanzi a Gesù è dunque il portavoce di questa generazione infedele, senza fede, che ha generato un "figlio" unendosi in adulterio con il demonio. Il "figlio" di quell'uomo è proprio il figlio dell'incredulità che appartiene al demonio; è "lunatico", secondo l'originale greco, e non "epilettico" come vorrebbe una traduzione che è già un'interpretazione moderna e positivistica del Vangelo. Segue cioè le fasi lunari, come dire che è in balia degli eventi, sballottato qua e là da qualsiasi vento di dottrina, seguendo i desideri e i criteri della carne. 

Quel "figlio" è per questo immagine di tutti coloro che incontrano Gesù appena disceso dal monte Tabor: di quel padre, della folla e dei discepoli incapaci di curarlo. E' dunque figlio tuo e mio, oggi. E' il figlio dell'idolatria che segue sempre l'incredulità: "chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto" (Chesterton). Proprio come il Popolo di Israele che era rimasto alla pendici del Sinai mentre Mosè vi era salito per ricevere da Dio le Dieci Parole dell'Alleanza, la "Ketubà", ovvero il contratto matrimoniale con il quale avrebbe accolto Israele come sua sposa. Essendo passati molti giorni, il Popolo ha cominciato a dubitare in Mosè e nel Dio a cui diceva di obbedire. Il Popolo era stanco di seguire Mosè nel deserto, voleva un dio fatto dalle sue mani, il compimento dei propri ideali, dei propri desideri e dei propri criteri. E così si fabbrica un vitello d'oro, simbolo di forza e divinità dei popoli pagani a lui vicini. Prima ancora di ricevere da Mosè il contratto matrimoniale, il Popolo promessa sposa aveva già adulterato! Per questo Dio e il suo servo Mosè si indignano, e quasi rinnegano quella fidanzata infedele. Sappiamo che il Monte Tabor e la Trasfigurazione sono anche il compimento del Sinai e dell'Alleanza. E' Cristo la Torah fatta carne; nel suo cuore il Padre ha scritto le Dieci Parole nella certezza che le avrebbe compiute. In Cristo, infatti, la carne incapace di ascoltare e obbedire, è stata "trasfigurata", ha "cambiato forma" sino a diventare il tabernacolo della vita divina, dell'obbedienza perfetta, dell'amore e della fedeltà. Ma, proprio come avvenne alle pendici del Sinai, i discepoli non hanno confidato nel loro Maestro; la loro incredulità li ha resi impotenti di fronte al potere del demonio. Loro, che erano la primizia del Nuovo Israele, l'immagine della Chiesa che si stava gestando per divenire la Sposa dell'Agnello, avevano perduto la primo-genitura. Lo dice chiaramente Gesù: "per la vostra mancanza di fede..." e non come recita la traduzione che tradisce il testo: "per la vostra poca fede". Ma come, se avessero avuto "poca fede", simile al "granello di senapa" nulla gli sarebbe stato impossibile"... No, i discepoli non avevano fede! Nell'attesa di Gesù si erano industriati con le loro forze, con i loro criteri, con la loro religiosità. E non avevano potuto nulla contro il demonio... Per questo Gesù si adira con loro e con il padre di quel ragazzo, come oggi si adira seriamente con ciascuno di noi. C'è nella tua vita un figlio indemoniato? Ci sono, cioè, nella tua vita opere figlie dell'incredulità? Senza dubbio... In famiglia, al lavoro, nella comunità cristiana, ovunque... Guarda bene se non hai dei rancori, se sei impotente di fronte a quell'offesa e a quell'ingiustizia... Guarda se per caso non riesci ad accettare quella malattia... Ebbene, se è così, è perché ti sei costruito un vitello d'oro, nell'incapacità di seguire il Signore nel compimento del volontà del Padre. Sei un per-verso, hai cioè cambiato strada, e stai camminando quella che segue la tua "luna", i tuoi sentimenti, gli ormoni, le concupiscenze o le illusioni pseudoreligiose. Hai generato figli con il demonio, accettalo! Accetta allora il "fuoco" con cui Mosè ha bruciato il vitello, e l' "acqua" nella quale ne ha disperso la polvere, gli stessi elementi nei quali si gettava il fanciullo indemoniato. Accetta che quello che ti accade è a causa della tua incredulità, figlia della menzogna del demonio a cui hai dato ascolto. Accetta che Cristo si sia stancato di te. Sì, accetta che ti mostri la tua realtà, e accetta le conseguenze dei tuoi peccati. Allora potrai ascoltare la Buona Notizia celata nel Vangelo di oggi: "portatelo qui da me". Al colmo dell'indignazione esplode in Cristo la sua misericordia! Allora fatti "portare" dalla Chiesa ai piedi di Gesù, ascolta la sua Parola che scaccia dal tuo cuore il demonio dell'incredulità, e accostati ai sacramenti che depongono in te il piccolissimo "granello di senapa" della fede. Convertiti, e potrai dire a "questo" monte di "spostarsi da qui a là"; dirai cioè non a un monte qualsiasi, ma proprio al Tabor alle cui pendici si trovava in quel momento Gesù, di spostarsi e venire da te, perché anche tu possa essere avvolto dalla stessa luce pasquale che ri-genera in te la natura divina, la primo-genitura. La luce di misericordia che ricrea in te il figlio di Dio. Il brano odierno, infatti si conclude con un versetto inspiegabilmente tagliato nella versione liturgica: "Questa generazione di demoni" (Gesù usa lo stesso termine con cui ha indicato gli increduli) si scaccia solo con il digiuno e la preghiera", esattamente come fece Mosè sul Sinai durante i quaranta giorni che precedettero la teofania. Quaranta come il cammino nel deserto, come la quaresima, vestigia del catecumenato primitivo. Ecco, il Signore ci chiama oggi a camminare nella Chiesa dove, accogliendo la fede, essa diventi adulta e ci prepari alle nozze con il Signore, quando Egli ci donerà, compiuta, la Parola perché si faccia carne in noi. 












L'ANNUNCIO
Dal Vangelo secondo Matteo 17, 14-20

In quel tempo, si avvicinò a Gesù un uomo che gli si gettò in ginocchio e disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio! È epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e sovente nell’acqua. L’ho portato dai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo». 
E Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo qui da me». Gesù lo minacciò e il demonio uscì da lui, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, in disparte, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: “Spòstati da qui a là”, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile».







La "Trasfigurazione" è l'ultima opera dipinta da Raffaello prima di morire 

Il quadro più bello del mondo


Custodito in un museo perde gran parte della sua capacità di parola 

di Marco Agostini 

Nel 1517 il cardinale Giulio de' Medici, poi Clemente VII, per la sua cattedrale di Narbona commissionò a Raffaello la Trasfigurazione. Il pittore vi lavorò fino al sopraggiungere della morte il 6 aprile 1520. Nondimeno il cardinale, anziché spedirla in Francia, trattenne l'opera a Roma facendola collocare sull'altare maggiore della chiesa di San Pietro in Montorio. 
Oltralpe il dipinto ci andò con Napoleone nel 1797 rimanendovi per una quindicina d'anni; fu, poi, restituito e sistemato nella Pinacoteca Vaticana. 
Opera ultima di una stagione di eccezionale fervore creativo, la Trasfigurazione è dominata da una complessa elaborazione formale e da una straordinaria scioltezza esecutiva. Giorgio Vasari, alla fine della Vita di Raffaello da Urbino pittore et architetto, annota che:  "Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de' Medici, la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ognuno che quivi guardava". 
La meraviglia e le lacrime innanzi all'opera d'arte, alla bellezza, non sono solamente tòpoi della letteratura d'arte; nell'ossimorico accostamento "il corpo morto e quella viva" c'è il dramma dell'esistenza, della vita come continuo confliggere con la morte, Mors et Vita duello conflixere mirando:  Dux vitae mortuus, regnat vivus, dell'arte che insegna "come l'uom s'etterna". 
La rivelazione del Tabor, espressa con il linguaggio rasserenante e divinizzante dell'arte, getta luce sul volto oscuro della terribile nemica e assicura che di lì si giunge alla gloria. La tavola era considerata già da Vasari il testamento spirituale del pittore:  "per mostrare lo sforzo et il valor dell'arte nel volto di Cristo, che finitolo, come ultima cosa che a fare avesse, non toccò più pennelli, sopragiungendoli la morte". 
L'evangelista Matteo - parrebbe esser lui l'apostolo in primo piano a sinistra - sulla cui scorta Raffaello dipinge, colloca l'episodio della Trasfigurazione durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme, tra il primo e il secondo annuncio della passione, prima della guarigione del giovane lunatico. La narrazione evangelica esplicita l'intenzione di Gesù di prevenire negli apostoli lo scandalo della croce e di manifestare il significato redentivo della sua morte. 
In alto si osserva la teofania del Tabor e in basso la presentazione del giovane ai discepoli di Cristo in assenza del Maestro. Sul monte il Cristo sfolgorante "vestito di colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la essenza e la deità di tutt'e tre le Persone unitamente ristrette nella perfezzione dell'arte". Il Cristo si libra tra le nubi, nel classico atteggiamento conferitogli da Raffaello, al centro di un ideale disco tracciato dai corpi di profeti e apostoli. Lo affiancano Mosè ed Elia, ovvero la legge e la profezia, ai piedi Pietro, Giacomo e Giovanni i testimoni privilegiati dell'avvenimento, in disparte - come già il patrono di Ravenna nel mosaico paleocristiano di Sant'Apollinare in Classe - i santi Felicissimo e Agapito commemorati dal martirologio lo stesso giorno della festa liturgica.
La Trasfigurazione avviene in un clima calmo, governato dalla simmetria, avvolto da un'intensa luminosità che esalta la superna coerenza delle leggi lineari, plastiche e cromatiche. Alle pendici del Tabor, l'azione è imperniata sulla statuaria donna inginocchiata in primo piano, "la quale è principale figura di quella tavola". 
Inizialmente Raffaello voleva dipingervi la madre del ragazzo, ma ora vi vediamo la Fede, splendida della stessa luce di Cristo. Ha l'ardire e il tratto fiero e nobile di chi chiede per ottenere. È lei a mettere in relazione il gruppo degli apostoli e quello del padre dell'indemoniato. 
Il convulso ma ben compaginato episodio è avvolto nell'oscurità. L'intreccio serrato degli sguardi svela l'impossibilità degli apostoli di compiere il miracolo:  il demonio a loro non obbedisce. I loro gesti rinviano a un'autorità più grande, al momento assente. Lo spasmo in verticale delle braccia e il volto spiritato del ragazzo, esprimono lo stravolgimento dell'ordine della creazione operato da Satana:  stabilisce un rapporto diretto tra l'alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra Colui che libera e colui che incatena, tra Colui che esalta e colui che disprezza, tra Colui che dà all'uomo bellezza e colui che, invece, gliela toglie. Chi libera è il Cristo la cui umanità sul Tabor arretra per un istante scoprendone la divinità. 
Anche sul Golgota la sua umanità arretrerà tanto da "non esser più d'uomo il suo aspetto", tuttavia, in forza di quel sacrificio, per la carne piagata della divinità crocifissa, l'uomo sarà liberato dallo spirito del male e il mondo riavrà la sua antica bellezza. I numerosi disegni preparatori di Raffaello dimostrano anche per questa scena una lunga e complessa elaborazione; se l'intervento degli allievi ci fu, fu solo per completare l'opera. L'enfatica gestualità, l'animazione complessa si rispecchiano nel dinamismo nuovo della composizione da cui traspare il superbo classicismo raffaellesco, e un naturalismo tragico accentuato dalla differenza netta e morbida delle ombre. 
Il dipinto, sottoposto agli schianti violenti dell'ombra e della luce, impone la visione da vicino e da lontano: in chiesa avrebbe dovuto favorire il movimento di avvicinamento dei fedeli all'altare. Sviluppata verticalmente, la pala sull'altare avrebbe dovuto offrire la scena della liberazione al sacerdote che celebrava innanzi da una posizione ravvicinata, e quella della Trasfigurazione ai fedeli che più discosti contemplavano quanto il mysterium fidei velava e rivelava. 
Al sacerdote ricordava il monito di Gesù circa l'incapacità degli apostoli di guarire e liberare il ragazzo lunatico:  "Per la vostra poca fede", in alcuni manoscritti per la vostra "nessuna fede", nella Vulgata per incredulitatem. "Questa razza di demoni si scaccia con la preghiera e il digiuno" (Matteo, 18, 21). L'incredulità può ostacolare la liberazione dei fratelli. La Fede, in ginocchio, con il volto girato agli apostoli e le mani indicanti il ragazzo posseduto, mostra il compito:  "Ora che il Maestro non è più con voi, a voi è affidato l'incarico di ascoltare la supplica di aiuto dell'umanità assediata dal maligno e di liberarla nel nome di Cristo secondo il suo comando". 

L'incredulità è all'origine del non esercizio dell'autorità pur essendone stati investiti. L'incredulità impedisce di vedere con gli occhi della fede la "trasfigurazione" del pane e del vino nel Corpo, Sangue, anima e divinità di Cristo. I cenni degli apostoli convogliano l'attenzione dal basso all'alto. Un tempo sostenevano la capacità visiva del sacerdote al momento dell'elevazione, facendogli scorgere nella candida Ostia il Cristo sfolgorante in cielo e invitavano i fedeli ad avvicinarsi al mistero. 
Un'opera d'arte sacra posta in un museo, anche con le migliori intenzioni e forse più custodita, perde tre quarti della sua capacità di parola solo per il fatto che è posta fuori del contesto per il quale è stata creata. Oggi, nella  Pinacoteca, la Trasfigurazione è solo un oggetto, ancorché tra i più eccellenti, allineato tra i molti, ma privo della forza che gli proveniva dall'essere parte del mistero liturgico, dello spazio della preghiera. La delibera che giustificava il mosaico in basilica sottolineava il desiderio di avere, se non altro, una copia "del più bel quadro che abbia il mondo". Ma ora che l'originale è a pochi passi nel museo, pare innaturale accontentarsi in chiesa della copia.






















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