2 Novembre. Commemorazione dei fedeli defunti





αποφθεγμα Apoftegma

Sono risorto e ora sono sempre con te, ci dice il Signore, e la mia mano ti sorregge. 
Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani 
e sarò presente persino alla porta della morte. 
Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, 
là io ti aspetto per trasformare per te le tenebre in luce.
Benedetto XVI





L'ANNUNCIO
Dal Vangelo secondo Giovanni 6,37-40
In quel tempo, Gesù disse alla folla: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

Vedere Gesù è, oggi, la vita eterna alla quale siamo chiamati 


Come un fiume carsico, scorre in ogni evento e relazione della nostra vita, il desiderio di "vedere" Gesù come lo hanno contemplato i discepoli la sera di Pasqua, riconoscendolo dai segni del suo amore per loro. È nel perdono dei peccati, infatti, che possiamo "vedere" il Signore, e in Lui il volto misericordioso del Padre, origine e destino della vita di ogni uomo. Non è possibile che la mia vita finisca come sta finendo il mio matrimonio. Sono sparite le parole, non ci sono sguardi e carezze a unirci in dono, e da anni siamo due e non più una sola carne... E proprio qui appare dinanzi a noi Cristo risorto. Ci mostra le sue piaghe, e ci chiede solo di "guardarlo e credere" in Lui. Significa, semplicemente, accogliere il suo perdono capace di cancellare il peccato e donarci la sua vita che ha vinto la morte. Nella sua risurrezione può risorgere il nostro matrimonio; in Lui rivive la nostra carne, si può donare e tornare ad essere una e non più due. Esiste dunque un'altra vita, è quella di Cristo nella nostra, è il nostro matrimonio salvato. E' da qui che possiamo cominciare a "credere" e sperare il Cielo e la risurrezione nell’ultimo giorno, per noi e per i nostri cari. Li "commemoriamo" oggi guardando Cristo vivo nella nostra vita, celebrando in essa la Pasqua del Signore che attira ogni vita nel presente eterno del suo amore, dove nulla di noi andrà perduto. Si può desiderare, infatti, solo ciò che si è conosciuto.



QUI IL COMMENTO COMPLETO E MOLTI APPROFONDIMENTI







La celebrazione di oggi è un invito ad avere lo sguardo immerso in Gesù, per pregustare il Cielo, la vita vera oltre la morte. Dio si è fatto carne che ha vinto la morte, perché il Cielo tornasse ad essere la patria di ogni carne. In Cristo, infatti, sono vivi i fratelli che ci hanno preceduto e si sono abbandonati alla sua misericordia. Non avrebbe senso la “commemorazione dei defunti” se non fosse innanzitutto il “memoriale” della Pasqua del Signore.

Molto più di un semplice ricordo, la memoria di un cristiano è un’intimità che supera tempo e spazio, è appunto un «memoriale», ovvero «il presente del passato» (S. Agostino). Quando Israele racconta e celebra gli eventi della sua storia, non resta spettatore sulla loro soglia. Li accoglie compiuti di nuovo nel suo presente, mentre è chiamato a farsi contemporaneo di chi li ha vissuti in presa diretta.

Come in un appuntamento d’amore, Israele ha incontrato Dio nella memoria del suo agire fedele e misericordioso, imparando ad affidarsi a Lui come un figlio a suo padre. Gesù, il Figlio prediletto, ha dato compimento a questa esperienza quando, «disceso dal cielo» sulla terra, ha vissuto unito al Padre nella memoria della sua volontà, facendone il suo presente dove offrirsi in riscatto per l’umanità.

Durante l’ultima cena, Gesù ha consegnato alla sua Chiesa come un “memoriale” il compimento della volontà del Padre, la salvezza eterna di ogni uomo: «Fate questo in memoria di me». Anche oggi celebriamo l’Eucarestia nella quale, “facendo memoria” della vittoria di Cristo sulla morte, “commemoriamo” anche tutti coloro che, in Lui, hanno già vinto la morte.

Per questo, con la celebrazione di oggi la Chiesa ci insegna e accompagna nella fede per accogliere tra noi, nel presente della storia concreta che stiamo vivendo, l’opera che Dio ha compiuto in chi ci ha preceduto nel passaggio attraverso la morte corporale. 

E’ molto di più del ricordo struggente che vive chi non conosce Gesù Cristo, e per questo è condannato a fissare l’immagine della persona cara mentre il tempo la sbiadisce nella carta fotografica. Noi fissiamo Cristo che ha vinto la morte, e in Lui possiamo riconoscere i volti dei defunti.

Dio, infatti, ci ha “rivolti verso” Gesù, come recita l’originale greco, allo stesso modo che Gesù, dall’eternità, è “rivolto verso” il Padre. E’ la nostra elezione, il Dna spirituale inscritto nelle nostre cellule e nella nostra anima, da sempre; quello di Eva, immagine della Chiesa, Sposa di Cristo tratta dal fianco squarciato del nuovo Adamo che ha vinto la morte; così anche ciascuno di noi è condotto a Lui attraverso la Parola e i sacramenti con cui la Chiesa ci prende per mano. 

E’ come un magnete, c’è un’attrazione irresistibile, che si può frustrare solo con il peccato che ci chiude ostinatamente all’opera dello Spirito Santo. Tra noi e Gesù accade come nel “ricongiungimento” di una coppia di immigrati: prima entra nel Cielo lo Sposo, vi si stabilisce, ne prende la cittadinanza e così “prepara un posto” per la sua Sposa; allora torna da lei e la chiama, perché si ricongiunga a Lui.

Come è successo la sera del giorno di Pasqua quando Gesù è apparso ai suoi discepoli chiusi nella paura della morte. Come accade ovunque la Chiesa annunci il kerygma, la Buona Notizia di Cristo risorto. Quando lo Sposo ti chiama, le pratiche per ottenere il visto del Paradiso sono facilissime. La Sposa non deve perdere tempo e forze per iniziarle da zero. Basta dimostrare di essere sua moglie.

E come lo dimostra? Con il certificato di matrimonio, che è il battesimo, dove “siamo stati uniti a Lui con una morte simile alla sua”, per esserlo “anche nella sua risurrezione”. Per questo Gesù dice che chi è chiamato “verrà a me”, letteralmente “si avvicinerà rivolgendosi verso di me”. E’ il compimento della volontà nella quale Dio ci ha creato: l’accordo della nostra alla sua. Lui ci ha rivolto verso Gesù, ma occorre che ciascuno di noi lo accetti e si avvicini e si volga verso di Lui.

Tradotto nella nostra vita, questo significa concretamente: per “volgersi”, convertirsi e "andare" a Cristo, tu ed io cammineremo nella Chiesa, senza la quale la fede resta un vagito incapace di esprimersi in gesti che abbiano il sapore della vita eterna: l’iniziazione cristiana, infatti, è l’iniziazione alla vita eterna, ed è inutile, senza la fede adulta la morte resterà un pozzo nero dal quale sfuggire a tutti i costi. Continuerà a farci paura perché questa è vinta solo dalla prova che al di là di essa vi è la vita eterna, dal sigillo dello Spirito Santo che Cristo risorto effonde sui suoi discepoli la sera di Pasqua.

Per credere occorre dunque il Cenacolo dove “vedere” Cristo e riconoscere in Lui Colui che, sulla Croce ha dato la vita per me. Abbiamo bisogno della Chiesa che ci insegna a “guardare” con attenzione e riconoscere nei segni compiuti nella nostra vita l’opera del Signore risorto. Nella comunità impariamo a “vedere” la Parola ascoltata compiersi nelle sue ferite risplendenti di Gloria, ovvero i sacramenti; questa esperienza è la certezza di essere stati perdonati. Ecco il cuore della “commemorazione” di oggi! Il perdono dei peccati.

Ecco perché la Chiesa prega oggi per i suoi figli che “si sono addormentati nella speranza della risurrezione” e per “tutti i defunti” che “affida” alla stessa misericordia della quale essa si nutre. Speriamo per loro che siano ”ammessi a godere la luce del volto” di Dio che, qui sulla terra, contempliamo nei segni del suo amore. La vittoria di Cristo sul peccato che abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentare fa crescere in noi la fede con cui affidare le persone care allo stesso amore che ci rigenera ogni giorno.

La celebrazione di oggi, ci spinge dunque ad “andare a Lui” accogliendolo nel cammino di conversione. Non si tratta di sforzi e impegni, ma di ascoltare la Parola che di nuovo ci chiama per “darci” a suo Figlio. E' lasciare che l’onda magnetica del suo amore ci attragga, e seguirla, sino a che ci “seppellisca con Cristo” attraverso i sacramenti che “crocifiggono l’uomo vecchio con Lui” per risuscitarci e donarci in Lui di camminare in “una vita nuova” che innesca in noi il desiderio del Cielo, vincendo la paura della morte: se Dio è stato fedele durante tutta la vita, ci deluderà proprio alla fine?

Impossibile, perché l’esperienza ci dice che “la morte non ha più potere su Cristo”. Lo testimonia la nostra storia, nella quale “nulla è andato perduto”: il matrimonio, le relazioni difficili, noi stessi. Chi, nella comunità cristiana, sperimenta che Cristo è davvero risorto, e in Lui può aprirsi alla vita, o vivere fidanzamenti casti, o perdonare e amare anche il nemico, vedrà apparire vive accanto a lui le persone che lo hanno preceduto nel passaggio della morte. A ogni gesto d'amore soprannaturale è come se i morti risorgessero dinanzi agli occhi, rivelandosi vivi proprio in quell'amore. 

Nella comunità ci si allena per vincere con Cristo, perché nulla è scontato, e il demonio è sempre in agguato per nasconderci le opere di Dio, per indurci a dubitare.
E come una squadra di calcio vincendo prende consapevolezza della propria forza e così scende in campo sempre più determinata sino a conquistare lo scudetto, così nella comunità cristiana, sperimentando il perdono e la comunione, potremo crescere nella fede sino ad entrare nel Cielo, vincendo con Cristo lo scudetto della vita eterna.

In essa mai siamo "respinti", mai. Al contrario, siamo sempre accolti, e amati, amati, e ancora amati. Di fronte all'amore di Dio che non ci chiede nulla, così esageratamente grande, infinito, si sbriciolano nello stupore i dubbi e le angosce. Non ci hanno separato da Cristo i nostri peccati, né quelli degli altri. Per questo abbiamo la certezza che "nessuno andrà perduto": l’amore per noi ha trapassato le sue mani inchiodandoci eternamente a Lui. Quelle piaghe sono ora gloriose, e riempiono della stessa Gloria ogni frammento della nostra vita che, in Cristo, è custodito per l’eternità.

Non andrà perduto tuo padre, né tua madre, tuo marito, tuo figlio, perché l’amore più forte della morte è la garanzia che ci sarà il ricongiungimento sperato. L’amore è la “casa” dove ci ritroveremo, trasfigurati, in Cristo. Nulla di simile alle risposte che ogni religione cerca di dare alla morte. E’ l’esperienza dell’amore che l’ha vinta, qui ed ora, nella Chiesa; è il “rinnovo” quotidiano del nostro passaporto per il Cielo, timbrato a fuoco nel “crogiuolo” delle sofferenze che ci “provano”, ci fanno “degni di Lui” e “graditi come un olocausto”. 




APPROFONDIMENTI






  • Cristianesimo ed Escatologia. Louis Bouyer






  • Il paradiso, il purgatorio, l'inferno e lo scandalo della libertà. di Giacomo Biffi






  • La teologia delle esequie cristiane






  • Canti per i Defunti: la sequenza (francescana) del Dies irae


  • BENEDETTO XVI. "IL FATTO DELLA RISURREZIONE".
    Omelia per la Solennità dell'Assunta, 15 agosto 2010.

    San Paolo, nella seconda lettura di oggi, ci aiuta a gettare un po’ di luce su questo mistero partendo dal fatto centrale della storia umana e della nostra fede: il fatto, cioè, della risurrezione di Cristo, che è «la primizia di coloro che sono morti». Immersi nel Suo Mistero pasquale, noi siamo resi partecipi della sua vittoria sul peccato e sulla morte. Qui sta il segreto sorprendente e la realtà chiave dell’intera vicenda umana. San Paolo ci dice che tutti siamo «incorporati» in Adamo, il primo e vecchio uomo, tutti abbiamo la stessa eredità umana alla quale appartiene: la sofferenza, la morte, il peccato. Ma a questa realtà che noi tutti possiamo vedere e vivere ogni giorno aggiunge una cosa nuova: noi siamo non solo in questa eredità dell’unico essere umano, incominciato con Adamo, ma siamo «incorporati» anche nel nuovo uomo, in Cristo risorto, e così la vita della Risurrezione è già presente in noi. Quindi, questa prima «incorporazione» biologica è incorporazione nella morte, incorporazione che genera la morte. La seconda, nuova, che ci è donata nel Battesimo, è ««incorporazione» che da la vita. Cito ancora la seconda Lettura di oggi; dice San Paolo: «Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. » (1Cor 15, 21-24).

    Ora, ciò che san Paolo afferma di tutti gli uomini, la Chiesa, nel suo Magistero infallibile, lo dice di Maria, in un modo e senso precisi: la Madre di Dio viene inserita a tal punto nel Mistero di Cristo da essere partecipe della Risurrezione del suo Figlio con tutta se stessa già al termine della vita terrena; vive quello che noi attendiamo alla fine dei tempi quando sarà annientato «l’ultimo nemico», la morte (cfr 1Cor 15, 26); vive già quello che proclamiamo nel Credo «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

    Allora ci possiamo chiedere: quali sono le radici di questa vittoria sulla morte prodigiosamente anticipata in Maria? Le radici stanno nella fede della Vergine di Nazareth, come testimonia il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 1,39-56): una fede che è obbedienza alla Parola di Dio e abbandono totale all’iniziativa e all’azione divina, secondo quanto le annuncia l’Arcangelo. La fede, dunque, è la grandezza di Maria, come proclama gioiosamente Elisabetta: Maria è «benedetta fra le donne», «benedetto è il frutto del suo grembo» perché è «la madre del Signore», perché crede e vive in maniera unica la «prima» delle beatitudini, la beatitudine della fede. Elisabetta lo confessa nella gioia sua e del bambino che le sussulta in grembo: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (v. 45). Cari amici! Non ci limitiamo ad ammirare Maria nel suo destino di gloria, come una persona molto lontana da noi: no! Siamo chiamati a guardare quanto il Signore, nel suo amore, ha voluto anche per noi, per il nostro destino finale: vivere tramite la fede nella comunione perfetta di amore con Lui e così vivere veramente.

    A questo riguardo, vorrei soffermarmi su un aspetto dell’affermazione dogmatica, là dove si parla di assunzione alla gloria celeste. Noi tutti oggi siamo ben consapevoli che col termine «cielo» non ci riferiamo ad un qualche luogo dell’universo, a una stella o a qualcosa di simile: no. Ci riferiamo a qualcosa di molto più grande e difficile da definire con i nostri limitati concetti umani. Con questo termine «cielo» vogliamo affermare che Dio, il Dio fattosi vicino a noi non ci abbandona neppure nella e oltre la morte, ma ha un posto per noi e ci dona l’eternità; vogliamo affermare che in Dio c’è un posto per noi. Per comprendere un po’ di più questa realtà guardiamo alla nostra stessa vita: noi tutti sperimentiamo che una persona, quando è morta, continua a sussistere in qualche modo nella memoria e nel cuore di coloro che l’hanno conosciuta ed amata. Potremmo dire che in essi continua a vivere una parte di questa persona, ma è come un’«ombra» perché anche questa sopravvivenza nel cuore dei propri cari è destinata a finire. Dio invece non passa mai e noi tutti esistiamo in forza del Suo amore. Esistiamo perché egli ci ama, perché egli ci ha pensati e ci ha chiamati alla vita. Esistiamo nei pensieri e nell’amore di Dio. Esistiamo in tutta la nostra realtà, non solo nella nostra «ombra». La nostra serenità, la nostra speranza, la nostra pace si fondano proprio su questo: in Dio, nel Suo pensiero e nel Suo amore, non sopravvive soltanto un’«ombra» di noi stessi, ma in Lui, nel suo amore creatore, noi siamo custoditi e introdotti con tutta la nostra vita, con tutto il nostro essere nell’eternità.

    E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio. Tutti i capelli del nostro capo sono contati, disse un giorno Gesù (cfr Mt 10,30). Il mondo definitivo sarà il compimento anche di questa terra, come afferma san Paolo: «la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Allora si comprende come il cristianesimo doni una speranza forte in un futuro luminoso ed apra la strada verso la realizzazione di questo futuro. Noi siamo chiamati, proprio come cristiani, ad edificare questo mondo nuovo, a lavorare affinché diventi un giorno il «mondo di Dio», un mondo che sorpasserà tutto ciò che noi stessi potremmo costruire. In Maria Assunta in cielo, pienamente partecipe della Risurrezione del Figlio, noi contempliamo la realizzazione della creatura umana secondo il «mondo di Dio».

    Preghiamo il Signore affinché ci faccia comprendere quanto è preziosa ai Suo occhi tutta la nostra vita; rafforzi la nostra fede nella vita eterna; ci renda uomini della speranza, che operano per costruire un mondo aperto a Dio, uomini pieni di gioia, che sanno scorgere la bellezza del mondo futuro in mezzo agli affanni della vita quotidiana e in tale certezza vivono, credono e sperano.

    DALL'OMELIA PASQUALE DI MELITONE DI SARDI

    "Il Signore pur essendo Dio, si fece uomo e soffrì per chi soffre, fu prigioniero per il prigioniero, condannato per il colpevole e, sepolto per chi è sepolto, suscitò dai morti e gridò questa grande parola: "Chi è colui che mi condannerà? Si avvicini a me" (Is 50,8). Io, dice, sono Cristo che ho distrutto la morte, che ho vinto il nemico, che ho messo sotto i piedi l'inferno, che ho imbrigliato il forte e ho levato l'uomo alle sublimità del cielo; io, dice, sono il Cristo.
    Venite, dunque, o genti tutte, oppresse dai peccati e ricevete il perdono. Sono io, infatti, il vostro perdono, io la Pasqua della redenzione, io l'Agnello immolato per voi, io il vostro lavacro, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. Io vi porto in alto nei cieli. Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli. Io vi innalzerò con la mia destra.
     Egli scese dai cieli sulla terra per l'umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.
    Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e l le membra del nostro corpo con il suo sangue.
    Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto.
    Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.
    Egli è colui che prese su di se le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè e nell'agnello fu sgozzato.
    Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.
    Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione
    Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro".


    Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui
    Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro» di sant'Ambrogio, vescovo
    (Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)

    Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale? 
    Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l'anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l'anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7, 24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7, 25 ss.).
    Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
    Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
    Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte; quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
    E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l'esempio divino che la morte sola ha conseguito l'immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
    A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisce quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.
    L'anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.
    Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d'arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15, 3-4).
    L'anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64, 3).
    Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26, 4).


    Nessun commento: